Fini non mollerà Non gli conviene

Le dimissioni di Gianfranco Fini dalla presidenza della Camera costituiscono un tormentone ormai da mesi, addirittura da prima della sua espulsione dal Pdl. Le argomentazioni addotte a favore della sua rinuncia alla prima poltrona di Montecitorio abbondano. Fior di costituzionalisti hanno chiarito i motivi per i quali dovrebbe spontaneamente lasciare. Appelli, più o meno larvati, sono stati rivolti al capo dello Stato affinché eserciti il suo ruolo di garante, premendo sul diretto interessato affinché se ne vada. Le campagne di stampa proseguono, sia pure a fasi alterne. Le inchieste sulla casa monegasca miravano a creare un clima propenso a soffocare Fini: lo sputtanamento sarebbe stato tale da indurlo a lasciare le posizioni. Si sono ipotizzate anche strade schiettamente parlamentari, per rendergli la vita impossibile. Quanto alla provenienza delle sollecitazioni, sino al voto di fiducia erano concentrate essenzialmente nel Pdl; più sfumata la Lega. Negli ultimi giorni pure i leghisti sono scesi in campo, di nuovo sono tornati all’attacco i radicali, l’Unità si è fatta sentire. Sono giunti inviti addirittura da ambienti vicini a Fini: basti citare l’ideologo Alessandro Campi. Per quanto, però, possa essere ampio e articolato il fronte delle forze che premono per le dimissioni, il presidente della Camera terrà duro. L’ha sostenuto fin dall’avvio della campagna di stampa, l’ha ripetuto un paio di giorni addietro. Dalla sua Fini non vanta motivi istituzionali, costituzionali, giuridici, di opportunità, ma ha una ragione concreta, impellente, tale da sconfiggere qualsiasi ostacolo: la politica. Detiene una carica di primo piano, la usa, la sfrutta:politicamente parlando, deve fare l’impossibile per tenersela. Abbandonarla significherebbe depotenziarsi. Ne avrebbe un vantaggio tanto momentaneo quanto parziale d’immagine, però ne riceverebbe pesanti danni, con un costo che si protrarrebbe sino all’insediamento della prossima camera. In politica, di fronte a un interesse politico non c’è che fare. È quindi pensabile che nemmeno un accentuarsi delle pressioni porterebbe alle dimissioni.
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