La fine della Seconda Repubblica

Dalla Rassegna stampa

È inutile girarci attorno o attardarsi troppo sui dettagli: quella a cui stiamo assistendo è la fine della Seconda Repubblica. L’unica differenza, rispetto alla caduta della Prima, vent’anni fa, è che stavolta le dimissioni non sono imposte dagli avvisi di garanzia delle Procure, ma da una sorta di tribunale dell’opinione pubblica, che non ha bisogno di aspettare indagini, processi e sentenze, per esprimere il proprio disgusto.

Renata Polverini, che appartiene all’ultima generazione di leadership costruite in tv (il suo trampolino di lancio era stato «Ballarò»), proprio questo aveva capito quando, all’esplodere dello scandalo della Regione Lazio di cui fino a ieri era presidente, aveva annunciato la sua decisione di dimettersi. Doveva farlo subito, dieci giorni fa, senza lasciarsi attirare dalle molte sirene che hanno cercato fino all’ultimo di convincerla a resistere. Come potevano pensarlo, davvero non si era capito. Né lo hanno compreso i molti del centrodestra che ieri sera, dopo le dimissioni, continuavano a ripetere che non c’era ragione, che la giunta laziale era pulita, e sarebbe bastato mettere a stecchetto i consiglieri regionali per rifarsi la faccia di fronte agli elettori.

Diciamo la verità, era fuori dal mondo l’idea che per andare avanti bastasse mettere fuori «Francone» e «Franchino», il Batman di Anagni che coi soldi della Regione si era comperato un Suv e cenava a ostriche e champagne, e il finto pentito che gli aveva fregato il posto e lo aveva denunciato. Ed era impossibile che Berlusconi e Alfano non lo avessero compreso.

La verità è che nei dieci interminabili giorni trascorsi tra l’esplosione dello scandalo e le dimissioni della Polverini, i vertici del Pdl hanno dovuto far fronte alle pressioni della componente ex An guidata da La Russa e Gasparri, che minacciavano la scissione del partito perché il conto del Batman rischiavano di pagarlo loro. Di qui l’inutile tentativo di metterci una pezza, dimissionando «Franchino» per salvare «Francone», e mettendo al posto di capogruppo in consiglio regionale un’ignara ragazza ventenne, da usare come copertura dei prossimi imbrogli.

Una toppa che non poteva reggere. E questa pretesa campagna di moralizzazione - così hanno avuto il coraggio di definirla! - si svolgeva mentre i due protagonisti della faida si scambiavano le accuse peggiori, a colpi di lettere minatorie, copie di ricevute false con importi decuplicati, foto della festa in costume con i consiglieri mascherati da porci. Come potevano pensare di recuperare la fiducia dei cittadini, di fronte a uno spettacolo come questo?

C’è voluto il richiamo della Corte dei conti. Ci sono volute le dimissioni dell’opposizione. E alla fine è toccato al cardinale Bagnasco dar voce allo sdegno popolare e sollecitare i partiti a staccare la spina. L’accelerazione di Casini e dell’Udc, che hanno fatto calare il sipario sulla vicenda, è dipesa anche da questo.

Adesso c’è chi dice che questa storia era segnata dall’inizio, quando, nel 2010, il Pdl non riuscì neppure a presentare la lista per le regionali e il consiglio venne lasciato in mano al «federale» di Anagni. E’ possibile, ma la lezione che si ricava da quanto è accaduto è più semplice. A sei mesi dalle elezioni politiche, se non vogliono che alla Camera e al Senato accada quello che negli ultimi anni è successo a Milano, Napoli, Parma e Palermo, dove la gente ha cercato qualsiasi rifugio pur di non votare i partiti tradizionali, i gruppi dirigenti hanno solo una possibilità: far pulizia. Subito, senza perdere altro tempo. Vale per il centrodestra, il più colpito in sede locale da ras che compiono ogni genere di illegalità e quando arrivano le inchieste della magistratura fanno spallucce. Cosa aspetta, ad esempio, Berlusconi per pretendere un chiarimento da Formigoni? Dopo l’esempio della Polverini, quanto ancora può reggere il presidente della Lombardia, con le accuse che gli sono piovute addosso?

Ma anche il centrosinistra, non va dimenticato, dall’Emilia alla Puglia, sullo stesso terreno, non è certo esente da guai. La sensazione è che tutta la rete delle Regioni sia a rischio. Già solo il dato della spesa pubblica, cresciuta a livello locale di ottanta miliardi di euro negli ultimi anni, è inaccettabile in una stagione di sacrifici in cui lo Stato aumenta le tasse e chiede ai cittadini di tirare la cinghia.

La Prima Repubblica era stata inaffondabile per quasi mezzo secolo, ma si inabissò in due anni. La Seconda è durata meno della metà e sembra morire dello stesso male. In sei mesi, se è in grado di rinnovarsi veramente, può ancora provare a salvarsi. Oppure, come ha fatto in questi giorni, celebrare il suo funerale.

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