Femminicidi l'importanza dei centri anti violenza

Il 29 maggio del 2013 le donne uccise per femminicidio in Italia erano 25. Sempre troppe. Anche una sola taglia la carne di un Paese civile. Nel 2012, però, erano state 124. Nel 2011, 137. C’è la speranza di un’inversione di tendenza? Manteniamoci saggi e prudenti e teniamo gli occhi aperti sui dati prima di cadere in un’illusione. Ma qualcosa forse si sta muovendo. Domani il Senato approverà la convenzione del Consiglio d’Europa sottoscritta a Istanbul e firmata dall’allora ministra delle pari opportunità Elsa Fornero (27 settembre 2012).
Si è molto scritto e parlato di femminicidio nell’ultimo anno e mezzo e, se è vero che la pura ripetizione dello sdegno può indurre al «negazionismo» o addirittura «renderci assuefatti», come ha detto la relatrice Pd Emma Fattorini nell’aprire il dibattito nell’aula del Senato, è anche vero che un’opinione pubblica amica delle donne può fare miracoli.
Venerdì scorso ha già funzionato non male la task force governativa formata da Josefa Idem, Anna Maria Cancellieri, Emma Bonino e Beatrice Lorenzin. Nel decreto «svuota carceri», hanno trovato il modo di inserire due punti della Convenzione di Istanbul: un osservatorio di analisi criminologica sulle violenze di genere e - cosa ancora più importante - la possibilità di ottenere lo status di residente, indipendentemente dal partner, per le donne migranti soggette ad abusi e persecuzioni. Nel decreto si stabilisce anche che, per le lesioni personali si possa procedere su segnalazione di vicini e testimoni e che l’autore possa venir ammonito, privato della patente di guida, e anche essere oggetto di un vero e proprio procedimento, se dopo la prima ammonizione non demorde.
Siamo nel mondo della punizione. E’ importante. Ma è sufficiente? Molte donne superstiti e molte altre che le sostengono hanno maturato una certa diffidenza verso l’efficacia delle norme penali e punitive: già oggi il 15% dei femminicidi è preceduto da denunce inutili e ci vogliono più di sei anni per vedere uno stupratore o un violento in carcere. Ha tempo, il persecutore, per alzare via via la temperatura della sua crudeltà, magari a maggior ragione sentendosi braccato.
Peraltro la grande nuvola grigia che ci circonda non è solo quella delle donne uccise, ma di quelle che potrebbero esserlo, oppure che vivono tutta la vita nel terrore di esserlo. Per loro solo le misure sociali e di prevenzione possono quello che la giustizia penale non può. Oggi in Italia abbiamo 127 centri, di cui solo 61 sono delle vere e proprie case-rifugio per un totale, su tutto il territorio del Paese, di 500 posti letto. Il Consiglio d’Europa raccomanda un centro antiviolenza ogni 10.000 abitanti, un centro di emergenza ogni 50.000 abitanti e 5.700 posti letto nelle case rifugio. Un impegno economico e organizzativo più che decuplicato, soprattutto se si considera che attualmente le maggioranza delle case sono gestite da associazioni di donne pressoché volontarie, dato che gli enti locali con cui sono convenzionate versano in ben note ristrettezze. Né si vede, da parte di altri soggetti privati, alcuno spirito filantropico, fatta eccezione per la bella campagna fatta dalla Chiesa Valdese per dedicare il suo 8 per mille alle donne maltrattate e perseguitate.
Per ottenere che la violenza sessuale venisse definita reato contro la persona e le norme del Codice Rocco venissero abolite, le donne italiane si sono battute per circa vent’anni, dalla prima legge d’iniziativa popolare del 1979 fino all’approvazione definitiva nel 1996. Eppure, nella grande maggioranza, non credevano affatto che la procedibilità d’ufficio sempre e comunque e l’inasprimento delle pene fossero la via maestra. Erano perfettamente consapevoli che, per denunciare il proprio aguzzino occorre recuperare autonomia e fiducia in se stesse, smettere di denigrarsi e avere il coraggio di prendere la propria vita in mano anche durante il processo. Di qui l’importanza dei centri di sostegno e delle case rifugio.
Si dà il caso, però, che il governo ha chiesto al Parlamento di approvare la convenzione di Istanbul «secca», come si dice in gergo parlamentare. Cioè senza previsione di spesa per la sua traduzione in legge. Mai aggettivo risultò più azzeccato, date le misere finanze di cui la rete dei centri delle donne dispone. E se la task force delle ministre sfornasse un piccolo progetto di fattibilità economica per una legge fatta e finita e proprio vera? Ci piacerebbe - questa volta - non aspettare vent’anni.
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