I fantasmi dell'America

Questo è íl prezzo di essere l’America nel XXl secolo. Vivere con la voglia di essere amati e la certezza di essere odiati, con la paura nascosta sotto la pelle della routine quotidiana.
Una paura che si sveglia e morde anche se l’attacco è uno sbuffo di fumo molto rudimentale nel cuore di Manhattan, rivendicato da vaghi "Taliban dal Pakistan", magari per farsi pubblicità sul mercato del terrore.
Ogni giorno di ogni mese, in qualche città o angolo del mondo, la mano di un terrorista colpisce e uccide, da Mogadiscio dove il primo Maggio sono morte dilaniate 48 persone a Mosca (le 40 vittime delle bombe sul Metro a Marzo).
Ogni giorno. Ma è il fumo che si sprigiona da un Suv a Broadway l’incidente che rimescola e risolleva l’incubo del terrore negli Stati Uniti e quindi nel mondo. Non perché un morto americano valga più di un morto somalo o ceceno. Ma perché New York rimane la madre di tutti i sogni, le paure e gli odi del mondo. La città insieme reale e immaginaria che tutti vorrebbero possedere o distruggere. Non sono soltanto i 44 milioni di visitatori che nel 2009 si sono riversati nell’isola fra i tre fiumi, lo Hudson, lo Harlem e l’East River, 9 milioni di loro arrivati soprattutto da Inghilterra, Germania e Italia, a rendere quel grossolano ordigno neutralizzato a Broadway in una riedizione possibile delle Torri Gemelle e a trasformare nel brivido di New York, in un brivido che scuote il resto del mondo. E’ quella frase esclamata l’il settembre del 2001, la celebre «Siamo tutti americani» a spiegare perché un attentato fallito su un aereo o a Times Square, risuoni ovunque. Siamo tutti, soprattutto chi la vorrebbe annientare e chi la detesta, residenti in quella metafora del mondo chiamata New York e dunque America.
Per questo nessun fanatico, domestico o importato, Taliban, Wahabita, Neonazi, che sia, smetterà mai di tentare di violentarla e di annientarla, sapendo che nessuna bomba ci riuscirà mai, dunque condannando noi a una vita di ansia sotto la superficie della routine e se stesso all’eterna frustrazione di chi sa non poter mai vincere.
Aveva, lapalissianamente, ragione George W. Bush quando ripeteva, come oggi in sostanza ripete anche Obama, che l’America è odiata per «quello è», prima di esserlo per quello «che fa» e non ci sono ordigni che potranno mai cambiare la natura di una nazione, se non sarà lei a cambiare se stessa.
Proprio come tutti i suoi predecessori, anche Barack Obama ora deve vivere la realtà di essere la guida di un Paese che avrà sempre un nemico interno o esterno, un mentecatto neonazi offeso da una nuova legge troppo «statalista» od chierico allucinato di una setta assassina, deciso magari a punirla di un cartone animato offensivo verso il Profeta, come è accaduto con la serie South Park o, più seriamente, per i troppi «danni collaterali» che le bombe americani mietono fra pakistani e afgani innocenti.
In un anno, il presidente ha dovuto schivare, più per la fausta incompetenza dell’attentatore che per prevenzione, l’esplosione di un jumbo jet in volo transatlantico, il gesto più grande da quando Richard Reid fu fermato mentre tentava di farsi esplodere il tacco della scarpa in aereo, e ora lo shock del cuore di Manhattan infartuata da un veicolo carico di polvere pirica da fuochi artificiali, taniche di benzine e bombole dì gas. Tutto questo nel giorno in cui doveva volare sulle coste del Golfo del Messico devastate dal petrolio che continua a zampillare dal fondo marino.
Non c’è neppure nulla di eccezionalmente nuovo negli attentati, riusciti a abortiti, che hanno colpito New York. Esattamente 80 anni or sono, nel 1920, quando i Bin Laden e Al Qaeda neppure erano nati, un carro trainato da buoi e carico di mezzo quintale di dinamite esplose a Wall Street davanti alle sede della banca J. P. Morgat facendo strage: 38 uccisi e oltre 400 feriti. L’ispiratore, si disse senza prove, era un vercellese, un italiano anarchico chiamato Luigi Galleani, ma nessuno fu mai condannato per il massacro. Anche lui e i suoi seguaci odiavano quell’America dove erano andati a vivere. Da quando Obama è divenuto presidente, 17 mesi orsono, almeno sei complotti sono stati sventati o fermati, il più serio naturalmente a New York dove quattro cittadini americani dai cognomi insospettabili furono arrestati nel
2009 per avere progettato una strage in una sinagoga di Brooklyn. Mentre a Fort Hood, il maggiore Nidal Hasan, psichiatra militare della US Army trasformato in avversario fanatico delle sua stesse forze armate da una conversione troppo devota, abbatteva 13 commilitoni a raffiche di fucile automatico.
La necessità, la speranza, forse l’illusione, che cambiare politica estera, tono, strategia internazionale sarebbe bastato a ridurre la febbre dell’odio nel mondo e a calmare i focolai di fanatismo che sempre ribollono dentro le mura americane e che distrussero, sotto la presidenza Clinton, il grattacielo di Oklahoma City, non hanno potuto cambiare il prezzo di essere l’America.
Obama ha ereditato tutti gli odi che Bush aveva eccitato e che preesistevano all’11 settembre, aggiungendo di suoi il rancore di quelle estreme destre che lo vedono non come un Kennedy di colore, ma come uno Stalin nero. Ci sarà sempre, in una valle dell’Himalaya come in uno scantinato del Bronx, in una rifugio in Illinois o in una moschea wahabita dello Yemen, qualcuno che consumerà la propria vita vedendo nella satanica Manhattan la bolgia del delizioso demonio da esorcizzare.
Una paura che si sveglia e morde anche se l’attacco è uno sbuffo di fumo molto rudimentale nel cuore di Manhattan, rivendicato da vaghi "Taliban dal Pakistan", magari per farsi pubblicità sul mercato del terrore.
Ogni giorno di ogni mese, in qualche città o angolo del mondo, la mano di un terrorista colpisce e uccide, da Mogadiscio dove il primo Maggio sono morte dilaniate 48 persone a Mosca (le 40 vittime delle bombe sul Metro a Marzo).
Ogni giorno. Ma è il fumo che si sprigiona da un Suv a Broadway l’incidente che rimescola e risolleva l’incubo del terrore negli Stati Uniti e quindi nel mondo. Non perché un morto americano valga più di un morto somalo o ceceno. Ma perché New York rimane la madre di tutti i sogni, le paure e gli odi del mondo. La città insieme reale e immaginaria che tutti vorrebbero possedere o distruggere. Non sono soltanto i 44 milioni di visitatori che nel 2009 si sono riversati nell’isola fra i tre fiumi, lo Hudson, lo Harlem e l’East River, 9 milioni di loro arrivati soprattutto da Inghilterra, Germania e Italia, a rendere quel grossolano ordigno neutralizzato a Broadway in una riedizione possibile delle Torri Gemelle e a trasformare nel brivido di New York, in un brivido che scuote il resto del mondo. E’ quella frase esclamata l’il settembre del 2001, la celebre «Siamo tutti americani» a spiegare perché un attentato fallito su un aereo o a Times Square, risuoni ovunque. Siamo tutti, soprattutto chi la vorrebbe annientare e chi la detesta, residenti in quella metafora del mondo chiamata New York e dunque America.
Per questo nessun fanatico, domestico o importato, Taliban, Wahabita, Neonazi, che sia, smetterà mai di tentare di violentarla e di annientarla, sapendo che nessuna bomba ci riuscirà mai, dunque condannando noi a una vita di ansia sotto la superficie della routine e se stesso all’eterna frustrazione di chi sa non poter mai vincere.
Aveva, lapalissianamente, ragione George W. Bush quando ripeteva, come oggi in sostanza ripete anche Obama, che l’America è odiata per «quello è», prima di esserlo per quello «che fa» e non ci sono ordigni che potranno mai cambiare la natura di una nazione, se non sarà lei a cambiare se stessa.
Proprio come tutti i suoi predecessori, anche Barack Obama ora deve vivere la realtà di essere la guida di un Paese che avrà sempre un nemico interno o esterno, un mentecatto neonazi offeso da una nuova legge troppo «statalista» od chierico allucinato di una setta assassina, deciso magari a punirla di un cartone animato offensivo verso il Profeta, come è accaduto con la serie South Park o, più seriamente, per i troppi «danni collaterali» che le bombe americani mietono fra pakistani e afgani innocenti.
In un anno, il presidente ha dovuto schivare, più per la fausta incompetenza dell’attentatore che per prevenzione, l’esplosione di un jumbo jet in volo transatlantico, il gesto più grande da quando Richard Reid fu fermato mentre tentava di farsi esplodere il tacco della scarpa in aereo, e ora lo shock del cuore di Manhattan infartuata da un veicolo carico di polvere pirica da fuochi artificiali, taniche di benzine e bombole dì gas. Tutto questo nel giorno in cui doveva volare sulle coste del Golfo del Messico devastate dal petrolio che continua a zampillare dal fondo marino.
Non c’è neppure nulla di eccezionalmente nuovo negli attentati, riusciti a abortiti, che hanno colpito New York. Esattamente 80 anni or sono, nel 1920, quando i Bin Laden e Al Qaeda neppure erano nati, un carro trainato da buoi e carico di mezzo quintale di dinamite esplose a Wall Street davanti alle sede della banca J. P. Morgat facendo strage: 38 uccisi e oltre 400 feriti. L’ispiratore, si disse senza prove, era un vercellese, un italiano anarchico chiamato Luigi Galleani, ma nessuno fu mai condannato per il massacro. Anche lui e i suoi seguaci odiavano quell’America dove erano andati a vivere. Da quando Obama è divenuto presidente, 17 mesi orsono, almeno sei complotti sono stati sventati o fermati, il più serio naturalmente a New York dove quattro cittadini americani dai cognomi insospettabili furono arrestati nel
2009 per avere progettato una strage in una sinagoga di Brooklyn. Mentre a Fort Hood, il maggiore Nidal Hasan, psichiatra militare della US Army trasformato in avversario fanatico delle sua stesse forze armate da una conversione troppo devota, abbatteva 13 commilitoni a raffiche di fucile automatico.
La necessità, la speranza, forse l’illusione, che cambiare politica estera, tono, strategia internazionale sarebbe bastato a ridurre la febbre dell’odio nel mondo e a calmare i focolai di fanatismo che sempre ribollono dentro le mura americane e che distrussero, sotto la presidenza Clinton, il grattacielo di Oklahoma City, non hanno potuto cambiare il prezzo di essere l’America.
Obama ha ereditato tutti gli odi che Bush aveva eccitato e che preesistevano all’11 settembre, aggiungendo di suoi il rancore di quelle estreme destre che lo vedono non come un Kennedy di colore, ma come uno Stalin nero. Ci sarà sempre, in una valle dell’Himalaya come in uno scantinato del Bronx, in una rifugio in Illinois o in una moschea wahabita dello Yemen, qualcuno che consumerà la propria vita vedendo nella satanica Manhattan la bolgia del delizioso demonio da esorcizzare.
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