La famiglia di Simone: "Vogliamo la verità"

La fotografia più nitida di Simone La Penna la conserva la nonna, un'anziana signora che abita nella campagna di Zagarolo, come tutta la famiglia di questo ragazzo ucciso dall'incuria e dalle negligenze di un carcere romano, Regina Coeli. Lo stesso di Stefano Cucchi e di tanti altri. Come Cucchi, Simone è morto "consumato", nell'indifferenza di medici e infermieri che adesso si ritrovano indagati per omicidio colposo.
Pesava 49 chili, quando lo hanno raccolto nella sua brandina. Mentre ieri, la nonna raccontava di una ragazzone da oltre un metro e ottanta, e di ottanta chili di peso: «Aveva una figlia bellissima, che oggi ha tre anni. E una compagna che lo amava. E che stava cercando di tirarlo fuori da questa situazione tremenda». «Lo hanno lasciato spegnere come una candela - racconta Massimo La Penna, papà di Simone- Lo imbottivano di psicofarmaci, così dormiva e non si lamentava». E ancora: «A maggio dell'anno scorso aveva avuto un arresto cardiocircolatorio, lo ricoverarono due giorni al Santo Spirito, ma le sue condizioni non migliorarono. Andavamo ai colloqui e lo vedevamo stare sempre peggio, ormai pesava pochissimo, lui ci faceva coraggio, era un ragazzo buono. E pensare che qualche magistrato di fronte alle consulenze mediche del nostro avvocato, ci ha risposto che Simone faceva solo i capricci».
Invece il professor Ferracuti, docente di psicologia clinica alla Sapienza, aveva mandato relazioni molto chiare ai consulenti del magistrato di sorveglianza, dalle quali emergeva la condizione patologica del suo paziente: «Era depresso e anoressico, si lasciava andare; era doveroso metterlo in un'altra condizione, il carcere lo stava distruggendo ma nessuno ci ha dato ascolto».
Aveva anche una sorella, Simone La Penna. Si chiama Martina, ha 26 anni. Sarà lei, nei prossimi mesi, a sostenere i genitori, papà Massimo e mamma Cinzia, nel calvario giudiziario che li attende, seppure come parti civili nel procedimento penale. Da undici mesi, da quel 26 novembre 2009, non passa giorno che Martina non dedichi un pensiero, e un'azione, alla ricerca della verità. «È quello che vogliamo, semplice verità: Simone era incompatibile con il regime carcerario. Era stato dimostrato nei mesi precedenti, ma non è bastato. Lo hanno comunque lasciato morire».
A demolirlo psicologicamente, racconta Martina, il senso di impotenza di fronte alle difficoltà di cambiare vita. «Da quando era diventato papà, la figlia era la sua ragione di vita. Purtroppo la lentezza della giustizia faceva sì che mentre pensava di rimettersi in riga arrivavano a conclusione procedimenti pendenti. Poi, il 27 gennaio 2009, mentre era ai domiciliari venne rimesso in cella per spaccio di stupefacenti; un'accusa mai provata visto che non gli fu trovato assolutamente nulla. E iniziò il calvario che l'ha condotto alla morte». Simone non aveva una fedina penale da criminale, spiega Martina: «Era solo un tossicodipendente che aveva commesso piccoli reati. La pena in questi casi dovrebbe servire al recupero, non essere punitiva».
Indifferenza, negligenza, abbandono: Sono le parole che ricorrono di più nei discorsi di Martina. «Simone lo scriveva sempre nelle sue lettere. Era abbandonato a sé stesso. Non volevano sentirlo e gli davano psicofarmaci, così dormiva. Quel mattino terribile eravamo andate là, con mia madre. A portargli dei soldi. Una doccia gelata quando ci hanno detto che era morto. E ci sono volute sei ore e mezza perché ce lo facessero vedere».
Della vicenda, solo un mese prima della morte, si era interessato anche il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: «Segnalai che questo ragazzo aveva mostrato un calo fisico tragico e non aveva più la capacità di rispondere a qualunque tipo di sollecitazione. Dissi chiaramente che doveva essere portato fuori dal carcere perché incompatibile con la detenzione, ma questa mia opinione fu contraddetta dai medici del carcere stesso».
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