Emma ci ricorda che il malato non perde né dignità né diritti

Con la voce rotta dall’emozione, Emma Bonino ha annunciato qualche giorno fa dai microfoni di Radio Radicale di essere ammalata, di avere un tumore ai polmoni che la costringerà a sottoporsi ad una lunga chemioterapia. L’affermazione più profonda e toccante del suo breve intervento è stata questa: “Dobbiamo (le persone colpite da questa o da un’altra malattia importante) sforzarci di essere sempre persone, di voler vivere liberi sino alla fine. Insomma, io non sono il mio tumore, voi neppure siete la vostra malattia. Dobbiamo pensare che siamo persone che affrontano una sfida che è capitata”.
Sono parole bellissime, che evocano profonde verità morali. La verità più importante è relativa alla dignità del malato, alla dignità di tutti i malati, di noi quando siamo ammalati. Un valore che dovrebbe essere tutelato nel migliore dei modi in un mondo democratico di eguali, ma che non è assicurato solo dal fatto di essere trattati con gentilezza e con tatto dal personale sanitario (il che, per fortuna, molto spesso avviene e comunque di certo non guasta). La pienezza della dignità si conserva solo se il malato non perde i suoi diritti di persona, se non viene inferiorizzato, ridotto alla minorità, trattato come un bambino, considerato una creatura che non è più in grado di prendere decisioni autonome. E che quindi ha bisogno che altri, si presume più lucidi, più forti, proprio perché più sani, gli subentrino spogliandolo di ogni diritto. Talvolta con la tragica intenzione di proteggerlo. L’amore, l’amicizia fraterna e la solidarietà nel momento della sofferenza fisica e dell’angoscia psichica sono un enorme lenimento del male, sono la medicina più benvenuta, il farmaco più dolce per chi giace in un letto. A patto però che non rendano prepotenti nei confronti di chi è malato, che non diano adito alla tentazione di considerare quella in quel momento più debole una persona di serie B, il figlio di un dio minore. Perché allora è come se mettessimo i malati sullo stesso piano dei criminali, ai quali sottraiamo la libertà, in nome di una colpa da espiare.
La malattia non è una colpa. La malattia, come dice Emma, è una cosa che capita, un fatto della vita. Un fatto che, se volete, rammenta a tutti noi, malati e non malati (dovrei dire meglio a chi non si è ancora ammalato!) l’esistenza di un confine che prima o poi andrà attraversato e, proprio per questa ragione, ci ricorda la vacuità di tanta parte della nostra vita, la stupidità assoluta delle nostre ambizioni di onnipotenza. È l’angoscia sottile del limite che la malattia inevitabilmente evoca che cerchiamo di mettere a tacere silenziando chi non può nascondere i segni del male. “Poverino è malato” diciamo con leggerezza. Ed è come se dicessimo: “Non è più dei nostri, non ce ne possiamo più fidare, dobbiamo farlo internare, sospendere al più presto i suoi diritti, far sì che non parli più, che taccia fino a che non si sarà riavuto o che sia divenuto muto per sempre“. Quando facciamo così, ci opponiamo al contenuto profetico della malattia, a quel che essa annuncia di noi; cerchiamo di impedire a chi soffre di dire la verità sulla vita, di urlare che le nostre esistenze comprendono e contengono anche la malattia, che non siamo esseri invulnerabili, creature eterne.
Quante persone, quanti ammalati, ho visto nascondere disperatamente i segni della malattia, dissimularli in tutti i modi, talvolta facendo un’incredibile violenza a se stessi. Mogli che cercano di apparire “normali” ai loro mariti, figli che fanno mostra di un falso ottimismo sul proprio destino con i loro genitori. Certo, in tutti questi casi, con l’intenzione di non rendere troppo infelice il prossimo, di non gravare sulla vita di coloro che li assistono. Ma anche con il proposito di evitare lo stigma, di non voler essere puniti solo perché malati, di resistere alla privazione della dignità, al venir meno del riconoscimento di una condizione umana integrale.
“Non siamo la nostra malattia, non siete la vostra malattia”, dice Emma con la voce rotta dal pianto di chi ha appena ricevuto una notizia così impegnativa come quella di avere un cancro. Ha ragione Emma: non siamo la nostra malattia. È un messaggio profondamente politico, forse il più politico di tutta la sua lunga carriera. Vuol dire, almeno io lo leggo così: chiedete, chiediamo, di non doverci nascondere, di non dover mentire, di essere rispettati come esseri umani integrali, uguali a tutti gli altri, anche se qualche nostra maledetta cellula rema contro di noi. Se riusciremo a farlo, il nostro mondo sarà diventato migliore.
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