Emergency: ritorno con un volo di linea

Il chirurgo Marco Garatti, l’infermiere Matteo Dell’Aria e l’addetto alla logistica Matteo Pagani partiranno oggi per l’Italia con un aereo di linea: prima voleranno a Dubai e da lì, vulcano permettendo, verso il nostro Paese.
I tre operatori di Emergency - arrestati dieci giorni fa per terrorismo dai servizi di sicurezza afghani e rilasciati l’altroieri con la qualifica «non colpevoli» - hanno scatenato loro malgrado un piccolo caso mediatico anche riguardo al tipo di mezzo con cui tornare a casa. Hanno rifiutato l’aereo di Stato, battono le agenzie intorno alle 11. A stretto giro commenta anche il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, in quel momento a Herat per una visita ufficiale: «Un atto che si commenta da solo». Infine una nota della Ong, concordata con l’inviato della Farnesina, ambasciatore Iannucci, mette fine anche a quest’ultimo, ridicolo fronte polemico: «È un equivoco», fa sapere Emergency, nessuno ha rifiutato il passaggio offerto dal governo, ma il rimpatrio per quella via era «di difficile realizzazione a causa dell’irregolarità del traffico aereo dovuta alla nube vulcanica» e pure perché il Falcon dell’aereonautica con a bordo Crosetto è arrivato a Herat e non a Kabul. Risultato: si torna in Italia, ambasciatore compreso, con un volo civile. Risolta la questione più importante, la salvezza dei tre, ora resta il panorama desolato di un paese incapace di una politica estera coesa anche quando si rischino vite umane (e il capitolo sui sei collaboratori locali dell’associazione, ad esempio, non è ancora chiuso).
Emergency, data la natura fumantina ed ideologicamente spigolosa del suo fondatore Gino Strada, non è destinata ad una tranquilla vita lontana dal fuoco della controversia, ma la cauta per non dire complice reazione iniziale del nostro governo - oggi, a ragione, elogiato da tutti - agli abusi compiuti dall’intelligence afghana (e forse britannica) al momento dell’arresto e nelle 24 ore successive non è un bel precedente. D’altro canto è stucchevole quando non dannoso anche il solito teatrino dei politici"pacifisti", che usano vicende complesse e potenzialmente tragiche per polemichette di giornata. Tutto questo inutile fumo rende ancora difficile capire cosa sia successo davvero: perché i tre siano stati accusati di terrorismo, di chi erano le armi che gli afghani dicono di aver trovato nell’ospedale di Lashkar Gah, a chi ha giovato questa sparata condita con confessioni mai avvenute e vecchie intercettazioni - vere?, inventate? - che testimonierebbero del ruolo ambiguo che Emergency svolge in quella zona dell’Afghanistan.
Secondo le ricostruzioni più complottiste, il governo italiano avrebbe promesso a quello di Kabul che Emergency chiuderà l’ospedale di Lashkar Gah per non tornare più nella provincia di Helmand (controllata dagli inglesi). Chi sostiene questa tesi racconta che l’ospedale italiano è un fastidio per chi amministra il potere nella provincia per due motivi: la sua politica di equidistanza tra le parti e il suo ruolo di osservatore "parziale", essendo l’organizzazione di Strada decisamente schierata contro la permanenza dell’Isaf nel Paese. Emergency, comunque, ieri ha smentito l’esistenza dello scambio Roma-Kabul: «Non ci risulta nessun tipo di accordo di questo o di altro genere», si leggeva in una nota. Cecilia Strada, figlia del fondatore, ha sostenuto che l’ong «valuterà insieme ai nostri operatori e alle autorità afghane quali siano i modi e i termini della prosecuzione del nostro intervento nel sud dell’Afghanistan». La situazione è dunque ingarbugliata assai e lo è, per così dire, ontologicamente. Spiega Emma Bonino: «Questo accade quando le ong, al di là del loro mandato, stabiliscono legami con gruppi locali politicamente schierati che li pone in condizioni difficili». Così, dice la vicepresidente del Senato, «si rischia di incappare in contrasti e legami sul posto molto difficili, molto complicati, e alla fine poco chiari».
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