Elezioni e segni di nervosismo

A essere maliziosi, si potrebbe pensare che la scivolata del Governo al Senato (battuto su un emendamento che riguarda le pensioni degli alti dirigenti) sia anche una risposta ai toni sferzanti usati dal presidente del Consiglio nella conferenza stampa di lunedì. È probabile che, come ha spiegato il sottosegretario Catricalà al Tg3 e poi ha confermato lo stesso premier, il bersaglio dello «sdegno» fosse Maroni, non Alfano.
Fosse cioè un ex ministro degli Interni che incita i sindaci allo sciopero fiscale contro l'Imu o a forme di «disobbedienza civile». Un caso davvero singolare, a dir poco.
Viceversa la posizione di Alfano è un'altra. Da lui non viene un invito alla rivolta fiscale, semmai la proposta di alleggerire o abrogare la tassa sulla prima casa. È faccenda ben diversa, come pure la proposta di «compensare» i crediti che le imprese vantano verso le amministrazioni con le somme dovute al fisco. Chiaro che il governo non può essere d'accordo e non è contento che il più grosso gruppo parlamentare voglia presentare un disegno di legge sull'argomento, ma la posizione del Pdl, così formulata, è legittima. Al contrario, le tesi della Lega contengono elementi eversivi. E i sindaci, come ricorda il successore di Maroni al Viminale,il prefetto Annamaria Cancellieri, portano la fascia tricolore.
Sia come sia, i voti del Pdl ieri a Palazzo Madama si sono mescolati con quelli della Lega e dell'Italia dei Valori. Ne ha fatto le spese una norma complicata (e ignota al grande pubblico) che permetterebbe agli alti dirigenti dello Stato di andare in pensione senza vedersi ridotto l'assegno nonostante il taglia-stipendi in vigore. Il fatto in sé non è troppo grave, ma rappresenta la conferma che la navigazione di Monti non è e non sarà tranquilla nel prossimo futuro. Le amministrative alle porte sollecitano i partiti ad adottare forme di «guerriglia» politica che nei loro calcoli dovrebbero aiutarli a recuperare consenso. Una guerriglia che comincia ora, ma è destinata ad allungare la sua ombra sul residuo della legislatura, cioè almeno sette-otto mesi.
Rispetto a questo scenario, il presidente del Consiglio ha voluto rinverdire la sua immagine originaria: il nemico delle corporazioni, l'uomo che non tratta coi partiti, che ascolta e poi decide in autonomia. In altri termini, il castigamatti che l'opinione pubblica predilige, delusa com'è dalle forze politiche tradizionali. Più volte sollecitato a ritrovare la grinta dei giorni migliori, Monti ha cercato di sfuggire alla tenaglia in cui si sente stretto. Ha capito che per migliorare gli indici di gradimento nei sondaggi occorre ricreare la magia di dicembre. Ed ecco gli aspri accenti di lunedì contro i lacci e lacciuoli di partiti e sindacati. Ecco la nomina di un super-commissario (Bondi) e due super-consulenti (Amato e Giavazzi).
La scelta è stata salutata con favore, ma ha pure sollevato varie perplessità. Se l'incarico a Bondi era così indispensabile per gestire il risanamento della spesa pubblica perché non è stato affidato subito, appena insediato l'esecutivo «tecnico»? Il fatto che si siano aspettati cinque mesi per decidere non equivale a delegittimare, almeno in parte, alcuni ministri? È difficile stabilire oggi se questa nomina sia una prova di forza o di debolezza del premier. Tuttavia Monti sembra determinato a procedere lungo il suo sentiero, tornando a farsi apprezzare per le sue caratteristiche di uomo competente ed estraneo agli intrighi romani. Magari esibendo una squadra ristretta di collaboratori fidatissimi. È un'operazione ad alto rischio, ma è forse la sola che vale la pena tentare lungo il piano inclinato su cui siamo avviati.
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