Economisti e comari

Dalla Rassegna stampa

La polemica tra i ministri Brunetta e Tremonti - con il primo che accusa il secondo di essere «giurista» e non «economista», e di non aver titoli sufficienti per guidare la politica economica del paese - ricorda quella, storica, che portò ventisette anni fa alla caduta di Spadolini.
Nel novembre 1982 il ministro democristiano del Bilancio Andreatta accusò di «nazional socialismo» il Psi che con Craxi si candidava a Palazzo Chigi. Il ministro socialista delle Finanze Formica reagì duramente. Andreatta rincarò la dose, definendolo «un commercialista di Bari esperto in fallimenti». Formica replicò che Andreatta era «un professore di Cambridge, specializzato in India, che parlava come una comare». Da scherzosa che sembrava, la lite si fece seria, e portò alle dimissioni il primo presidente del Consiglio laico, dopo oltre trent’anni di governi dc.
In comune con quella vecchia storia, anche in questo caso, c’è l’aspetto delle intemperanze personali, frequenti al tavolo del Consiglio dei ministri.
E più calde, in particolare, quando si tratta di definire la dotazione finanziaria dei singoli ministeri. Da settimane il ministro dell’Economia è nel mirino dei suoi colleghi per la sua inflessibile politica di rigore, che lo porta a rifiutare ogni richiesta di spesa avanzata in occasione della legge finanziaria. Compresa, qualche settimana fa, quella di Berlusconi che gli chiedeva di tagliare l’Irap, la tassa più invisa agli imprenditori, e in prospettiva anche l’Irpef. Pur non avendola presa bene, il premier si dev’esser reso conto che lo stato dei nostri conti pubblici non consente eccezioni. E per questo, alla fine, ha difeso Tremonti anche dagli attacchi di Brunetta.
Di suo, il ministro dell’Economia, oltre al caratterino che tutti conoscono, ha un vecchio contenzioso con gli economisti, che accusa sovente di non essere stati in grado di prevedere la crisi finanziaria mondiale e in qualche caso perfino di esserne stati responsabili.
Se quello di ieri è dunque solo il secondo tempo di una disputa che si trascina da mesi - al quale, tuttavia, il rimpallo di titoli accademici ha aggiunto un che di ridicolo -, la tesi di Brunetta, secondo cui basterebbe mettere un economista al ministero dell’Economia per risolvere i problemi, francamente non si capisce. A parte il fatto che seguendo questa teoria il primo a trovarsi fuori posto sarebbe lo stesso Brunetta, perché alla Funzione Pubblica, sulla sua poltrona, dovrebbe andare un amministrativista, quello di Berlusconi è tutto fuorché un governo tecnico.
Di governi tecnici, in Italia, in momenti d’emergenza, se n’è avuto più d’uno, anche con discreti risultati. Quando invece, come nel caso dell’attuale esecutivo di centrodestra, è la politica ad assegnare gli incarichi, l’esperienza conta (o dovrebbe contare) più della stretta competenza, e anche un ministro non specializzato nella materia di cui deve occuparsi (non è il caso di Tremonti) può mettere alla prova le sue capacità avvalendosi di consulenti, confrontandosi dentro e fuori il governo e in Parlamento, ascoltando, riflettendo, spiegando, incontrando le categorie interessate dai propri provvedimenti: in altre parole, adoperando l’arte del buon governo. Tutto ciò - va ricordato - né Brunetta né Tremonti lo fanno sempre. Non a caso la ragione del loro litigio era un’altra.
 

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