Dopo l'Europa, la giustizia: prosegue la «strategia delle mozioni»

Se in politica contano i segnali, bisogna ammettere che due indizi fanno quasi una prova. Dopo l'annuncio di un documento comune sull'Europa, la strategia delle mozioni si ripete sulla giustizia. E di nuovo il triangolo Pdl-Pd-terzo polo si riconosce unanime nel testo che alla Camera approva la relazione del ministro Severino raccogliendo un largo consenso dell'aula.
Cosa vuol dire? La politica delle mozioni è, appunto, un segnale. Non è ancora una direzione di marcia univoca e sicura, però è già un passo avanti significativo. E se l'accordo sull'Europa risulta relativamente semplice, la giustizia è uno dei temi più divisivi di questi anni. Per quanto il testo della mozione possa essere generico, la decisione delle tre forze di firmarlo insieme ha un senso politico che non può essere ignorato.
Stiamo parlando di partiti che durante la stagione di Berlusconi si sono dilaniati sulle questioni giudiziarie. Oggi sembrano pacificati all'ombra di un ministro "tecnico" che ha detto, con molta onestà intellettuale, cose note sull'emergenza della giustizia penale e civile e sulla spaventosa situazione del sistema carcerario (oggetto della lunga e solitaria battaglia dei radicali).
È una premessa, niente più che una premessa. Ma incoraggia un certo ottimismo sulla possibilità che la maggioranza a tre riesca a ottenere qualche risultato nei prossimi mesi. Una maggioranza «salva-Italia ma non politica», come dice l'ex ministro Frattini con uno strano gioco di parole (forse che salvare l'Italia non è un un obiettivo politico?). A dire il vero, l'operazione in corso suscita malumori e inquietudini in qualche settore del partito berlusconiano, ma Alfano gode della fiducia di Berlusconi e questo per il momento gli basta. In sostanza le mozioni su Europa e giustizia indicano che le tre grandi forze non vogliono creare problemi al presidente del Consiglio. Intendono, almeno in apparenza, lasciarlo lavorare, garantendogli il voto in Parlamento e dedicandosi a quella riscrittura delle regole politico-istituzionali che appare tanto impervia quanto essenziale. S'intende che il cammino è lungo e le intese vanno tutte costruite, anche sulla legge elettorale. Tuttavia il punto di partenza non è banale. Quanto meno segnala che il presidente del Consiglio ha le spalle coperte. I partiti non hanno voglia di destabilizzarlo e anzi si muovono all'interno di una cornice di singolare sintonia. Una sorta di disarmo bilanciato. Tutto questo offre a Mario Monti un vantaggio tattico rispetto agli altri leader europei. Sarkozy si trova alla vigilia delle elezioni e ora, dopo la perdita della tripla A, rischia di dover rispolverare i toni del nazionalismo per rintuzzare l'ascesa di Marine Le Pen. Angela Merkel è alle prese con un'opinione interna insofferente e ciò spiega molte cose, compresa la replica deludente all'intervista di Monti al "Financial Times" («l'Italia può farcela da sola»).
Da un lato questa situazione non costituisce il miglior viatico per l'imminente vertice europeo. Dall'altro rende evidente che il presidente del Consiglio italiano è l'unico, in questo momento, a non dover sopportare pesanti condizionamenti politici. Il sostegno parlamentare al governo è ampio, le elezioni lontane. E l'opinione pubblica, come rivelano i sondaggi (vedi ad esempio Mannheimer), sostiene lo sforzo in atto più di quanto qualcuno avesse previsto.
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