Dopo 17 anni un altro predellino e l'idea di un'eterna transizione

Dalla Rassegna stampa

 

Diciassette anni dopo il 28 marzo 1994, giorno della sua prima, clamorosa vittoria elettorale, Silvio Berlusconi è di nuovo salito su un predellino. Di lì ha risposto ai suoi sostenitori, accorsi numerosi davanti al tribunale di Milano. L'uso politico mediatico del processo (in questo caso Mediatrade, in attesa del super-procedimento sul caso Ruby) rappresenta infatti l'ultimo sviluppo del berlusconismo. Non più l'incessante tentativo di evitare i processi attraverso ogni sorta di cavillo, ma una strategia mista, nella quale c'è posto anche per lo spettacolo di ieri mattina.
 
Berlusconi continua ad accusare i «giudici comunisti», ma lo fa presentandosi in aula (almeno stavolta è accaduto così) e poi lasciandosi abbracciare dalla folla appena uscito dall'udienza. Non c'è alcuna legittimazione della magistratura in tutto questo, ma anzi un passo avanti verso un contrasto definitivo e profondo. Il nuovo predellino di Milano è funzionale a una battaglia che continua sul piano processuale e politico: due livelli che s'intrecciano senza soste.
 
In realtà fra il 1994 e il 2011 è trascorsa una lunga stagione, nella quale l'attuale presidente del Consiglio è stato sempre la figura dominante, al governo come all'opposizione. Non a caso alle prossime elezioni voteranno ragazzi che sono nati e cresciuti «in toto» all'interno dell'era berlusconiana.
 
Tuttavia l'impressione è che il tempo politico non sia passato. Davanti al Palazzo di Giustizia milanese si è svolta una scena che avrebbe potuto aver luogo nel '94 anziché ieri. I toni, gli argomenti e le fobie sono le stesse di allora. E il protagonista naturalmente è la medesima persona. Diciassette anni fa accusava i magistrati di gettargli addosso fango e oggi ripete con precisione anche lessicale le stesse accuse.
 
Nel frattempo la transizione inaugurata dal crollo di Tangentopoli, e di cui Berlusconi avrebbe dovuto costituire la medicina, è ancora un cantiere aperto. La trasformazione e l'ammodernamento del paese si sviluppano con estenuante lentezza. E l'immagine del premier ritto sul nuovo predellino, impegnato nell'eterno braccio di ferro con i pubblici ministeri, è la fotografia di questo «passato che non passa».
 
Intorno c'è il mondo che cambia. La politica estera è diventata all'improvviso una sfida cruciale. Ma quale politica estera? La Libia ha dimostrato che l'Italia è piuttosto incerta fra scelte diverse. Irritata verso la Francia di Sarkozy, è sembrato l'altro giorno che la Farnesina volesse inaugurare un'intesa privilegiata con Berlino. Ma ieri lo stesso ministro Frattini si è affrettato a sottolineare che «non esiste alcun asse fra Italia e Germania» (del resto sembra improbabile che Angela Merkel voglia farsi trascinare in una sorta di patto anti-francese). E mentre Frattini precisava, il suo collega dell'Interno, Maroni, dichiarava al «Corriere» che l'unica via per il governo è il rapporto speciale con i tedeschi («sin dall'inizio la Lega era contraria alla partecipazione alla guerra e avevamo chiesto di comportarci come la Germania»).

Sullo sfondo incombe la questione dei migranti a Lampedusa. Come dice Emma Bonino, l'Italia oscilla «tra vittimismo e allarmismo». Anche qui, come sulla Libia, ci sarebbe bisogno della sintesi politica che solo il presidente del Consiglio può garantire. Ma Berlusconi è impegnato con i suoi processi, nel tentativo di trasformarli in una piattaforma politica ed elettorale. Così la frattura fra i due piani della realtà si allarga.

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