Le donne come Meriam cambieranno l’Africa

Dalla Rassegna stampa

«Ancora una volta con il caso di Meriam la tradizione musulmana, cosi come è vissuta in tanti Paesi, non ha trovato un equilibrio fra le libertà fondamentali delle persona umana e la comunità. Noi abbiamo fatto dei passi avanti. Ci vorranno molte altre donne coraggiose come Meriam perché riescano a cambiare la percezione della libertà e dei diritti delle donne nella loro società. Cosi come ce ne sono volute tante per conquistare il diritto delle donne al voto,non molto tempo fa, anche in Italia». Così il missionario comboniano padre Kizito, nato a Lecco come Renato Sesana, che vive tra Kenya, Sud Sudan e Zambia e ha scelto per sé il nome di un adolescente santo martire dell’Uganda, commenta la condanna a morte per apostasia di Meriam Yehia Ibrahim.

La 27enne Meriam, educata come cristiana ortodossa, la religione della madre, nonostante il padre fosse musulmano, è in carcere in Sudan, dove dovrebbe partorire ai primi di giugno il secondogenito avuto dal marito cristiano (foto), unione non riconosciuta dalle leggi islamiche. Padre Kizito osserva che in realtà spesso in Sudan il buon senso prevale su norme come questa. «Nel Paese, per legge dovrebbe essere applicata sempre la sharia, ma c’è tanta gente di buon senso tra i giudici e la polizia e così non viene fatto abitualmente. Per esempio, non ricordo molti casi in cui a un ladro siano state tagliate le mani. Certo, resta molto difficile per un sudanese nato in una famiglia musulmana cambiare religione e questa situazione è indicativa di mancanza di libertà, non solo in campo religioso, e dovrebbe essere superata».

Parlando anche del recente rapimento di oltre 200 studentesse da parte dei terroristi di Boko Haram in Nigeria, il missionario ci invita, davanti a questi casi, a non vedere l’Africa solo «in cattiva luce», a non credere «che il rispetto dei diritti umani possa essere garantito solo dalla presenza di militari europei o americani» e a non dimenticare che «ci sono tantissime organizzazioni no-profit locali che lavorano per la situazione femminile in Africa, che non ricevono mai l’attenzione mediatica che ha avuto questo episodio».

 

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