I distruttori delle riforme

Dalla Rassegna stampa

Si dice spesso che le riforme non si fanno perché lo slancio riformatore di molti governi (compreso quello attuale) è bloccato dai partiti, i quali in Parlamento difendono gli interessi di chi, per effetto di quelle riforme, perderebbe i propri privilegi. Vero, ma non è l’unico scoglio. Un altro ostacolo, altrettanto importante, è frapposto dalla burocrazia e dai suoi alti dirigenti. Un esempio: da oltre sei mesi si discute di come eliminare i sussidi e le agevolazioni di cui godono talune imprese (senza vi sia alcuna evidenza che questi aiuti favoriscano la crescita), in cambio di una riduzione del cuneo fiscale, cioè restringendo la forbice che separa il costo del lavoro per l’impresa dal salario percepito dal lavoratore. È una scelta con la quale concordano sia Confindustria sia i sindacati.

Ma la proposta, pur auspicata dal presidente del Consiglio, non è neppure arrivata in Parlamento: da mesi la burocrazia la blocca. Perché? Semplice: eliminare questo o quel sussidio significa chiudere l’ufficio ministeriale che lo amministra e assegnare il dirigente che lo guida a un diverso incarico. Ciò per lui significa perdere il potere che deriva dall’amministrare ingenti risorse pubbliche. È così che i dirigenti si oppongono sempre e comunque a riduzioni della spesa che amministrano, indipendentemente dal fatto che serva, o meno, a qualcosa. Ma basta questo per bloccare una riforma che anche i partiti in Parlamento auspicano? Perché la burocrazia ha questo potere? Fino a qualche anno fa i funzionari erano di fatto inamovibili: i ministri andavano e venivano, ma i dirigenti dei ministeri rimanevano. Non è più così. Oggi gli alti funzionari si possono sostituire, e tuttavia nulla è cambiato.

Il motivo del loro potere è più sottile e ha a che fare con il monopolio delle informazioni. La gestione di un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e hanno tutto l’interesse a mantenerlo. Hanno anche l’interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni (soprattutto se estraneo alla politica e per questo più propenso al cambiamento), a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili.

E comunque gli ricordano che prima di pensare alle novità ci sono decine di scadenze e adempimenti di cui occuparsi: non farlo produrrebbe effetti gravissimi. Spaventato, il ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c’è da tempo. È l’inizio della fine delle riforme. E se per caso il governo ne vara qualcuna senza ascoltare la burocrazia, questa mette in campo uno strumento potente: solo i dirigenti, infatti, sono in grado di redigere i decreti attuativi, senza i quali la nuova legge è inefficace. Basta ritardarli o scriverli prevedendo norme inapplicabili per vanificare la riforma

 

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