Dio c'è, Twitter ci fa

Dalla Rassegna stampa

Dopo anni di "Internet è una fogna", il giornalista collettivo italiano è improvvisamente piombato in una nuova fase, quella di "Internet ha vinto le elezioni", declinata, a seconda dei casi, in "Twitter ha fatto raggiungere il quorum", "Facebook ha eletto Pisapia" e "i blogger guidano le rivolte arabe". Questo perché il giornalista collettivo moderno vive tendenzialmente sui social network, soffre di una discreta forma di mitomania patologica e patisce il fatto che il vento sia cambiato non per merito dei suoi editoriali e delle sue inchieste scomode. Per questo tende a trasformare il Web in un luogo comune.

Un tifoso di calcio che ha seguito in trasferta la squadra del cuore sarà pronto a giurarvi che allo stadio si sentivano solo i cori del settore ospiti, ma non perché sia andata effettivamente così, quanto perché lui, immerso tra i compagni di tifo, sentiva solo i canti di sostegno alla propria squadra. Lo stesso accade a coloro i quali in questi giorni magnificano sulle prime pagine dei giornali il ruolo di Internet e di Twitter, decisivi secondo loro nel determinare la sconfitta elettorale di Berlusconi: chi passa la giornata su blog e social network non può che convincersi che tutte le idee interessanti debbano passare per forza soltanto da lì. La televisione ha molto probabilmente perso la sua capacità di creare opinione e indirizzare l'elettore, ma arrivare a sostenere che il voto contro Berlusconi è stato determinato dai link sulle bacheche di Facebook, dalle battute di Pisapia su Twitter e dai video di Crozza e Bersani su YouTube denota scarsa capacità di osservare la realtà. Link, video e messaggi sono stati semmai la conseguenza di un malcontento verso il Cav. e l'operato del governo, non i suoi generatori. Nella cloaca della rete ci sono un sacco di idee buone e persone intelligenti (da qualche settimana la versione on line del Foglio ospita opinioni di diversi blogger sugli argomenti più disparati), ma idolatrare i nuovi media in quanto portatori in sé del "vento che cambia" rischia di generare gravi errori di prospettiva: le rivoluzioni le fanno ancora i manifestanti che si danno fuoco in piazza, non i nerd americani che si spacciano per blogger lesbiche in Siria.

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