Difendiamo il procuratore

Dalla Rassegna stampa

Tutti sbalorditi, nervosi, preoccupati per le parole di Piero Grasso a «La Stampa». Lo stesso Antonio Di Pietro, che pure di queste vicende si intende da ex magistrato, ha tirato fuori un repertorio che fa gelare il sangue.
Un repertorio, quello di Di Pietro, già utilizzato in passato contro il povero Giovanni Falcone. «Si aprano i cassetti e si tirino fuori i nomi», insorge il leader dell’Idv. Subito dopo giunge la puntualizzazione del senatore Carlo Vizzini (Pdl), «Io vittima delle minacce mafiose, non possibile trattativista», e la preoccupata reazione del sen. Gianpiero D’Alia (Udc) che definisce le dichiarazioni di Grasso «troppo gravi e importanti per essere mero oggetto di letture domenicali». D’Alia chiude il suo intervento auspicando che «la Commissione antimafia acceleri i tempi d’esame della vicenda stragi».
Ma, insomma, cosa mai avrà detto Grasso di così terrificante? Nulla che non sia conosciuto da tribunali, commissioni parlamentari, analisti, politici e investigatori. Ha detto che in Italia si è verificato il tentativo, da parte di Cosa nostra, di condizionare l’attività di contrasto dello Stato. Ha detto che la mafia cercò di entrare in contatto coi politici per «indirizzare» provvedimenti parlamentari in favore di mafiosi detenuti e latitanti. E ha detto che Cosa nostra aveva messo in cantiere una serie di omicidi eccellenti per riuscire in questo intento. Il procuratore ha fatto alcuni nomi di parlamentari e ministri prossimi a subire attentati. È certificato dai documenti giudiziari che Cosa nostra volesse uccidere Claudio Martelli, Calogero Mannino, Carlo Vizzini e persino Giulio Andreotti. Per alcuni di loro il progetto era diventato già esecutivo. Ma ad un certo punto Totò Riina cambiò strategia e tornò a cercare di colpire i magistrati, provandoci con lo stesso Piero Grasso.
Si può onestamente concludere, come tenta di fare Di Pietro, che Grasso abbia voluto così indicare i probabili «trattativisti»? Solo il desiderio di tenere «a qualunque costo» alta la temperatura della battaglia politica può giustificare simili conclusioni. Rese ancor più incondivisibili quando l’ex magistrato arriva a inventarsi che il Procuratore Antimafia interpreta quella trattativa come un’azione «portata avanti nell’interesse dell’incolumità di alcuni politici di rango». Grasso, se vorrà, potrà chiarirsi con Di Pietro. In questa sede basta un invito a rileggere «serenamente» l’intervista pubblicata ieri da «La Stampa».
E veniamo all’inquietudine di quanti vorrebbero che l‘intera vicenda «Stragi & Trattativa» diventasse prerogativa della Commissione antimafia. Con l’evidente probabilità di creare pericolose interferenze con le inchieste delle procure di Palermo, Caltanissetta, Firenze, Roma e Milano. Inchieste sulle quali contano i familiari delle vittime in attesa, da 17 anni, di una giustizia finora negata. È troppo fresca ancora la ferita inferta dalle precedenti Commissioni, incapaci, dal 1963 in poi, di dare risposte ai cittadini, spettatori e vittime della tragica mattanza siciliana. Senza contare, poi, che proprio l’Antimafia conosce bene gli intrecci oscuri degli Anni Novanta. Negli archivi di via del Seminario giacciono faldoni dimenticati nel tempo: sono le carte illustrate al Parlamento dal pubblico ministero Gabriele Chelazzi che, purtroppo, non poté continuare le indagini perché ucciso da un infarto. C’è quasi tutto lì: compresa la storia della mediazione di Vito Ciancimino e del «papello» che oggi sembra turbare tante coscienze stupefatte. Nulla è più inedito del già scritto.

© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK