E di liberale rimase poco

È accaduto un fatto interessante e quasi nessuno se ne è accorto. Mi riferisco alla mancanza di reazioni, proteste, manifestazioni, di fronte all’introduzione di quella che i nostri solerti esattori delle tasse hanno presentato come l’arma definitiva, o quasi, contro gli evasori fiscali: la «fattura telematica», l’obbligo della comunicazione al fisco, tramite il commerciante, di qualunque spesa superiore ai 3000 euro. Ripeto: il fatto interessante non è la misura in sé. La storia fiscale italiana è zeppa di provvedimenti che, attuati col nobile intento di sconfiggere l’evasione fiscale, hanno fallito il bersaglio, riuscendo però a vessare tutti i contribuenti. La funzione del provvedimento sta tutta nel messaggio: «Lo Stato, orwellianamente, ti scruta, non ti perde mai d’occhio, attento a te». Da questo punto di vista, la tradizione è rispettata. Il fatto notevole è invece la mancanza di reazioni. Può offrire il destro per riflettere su un aspetto del quale non si è mai riusciti a dare una compiuta spiegazione: perché è sostanzialmente fallita la «rivoluzione liberale» promessa da Silvio Berlusconi? È dal 1994 che Berlusconi assicura che avremo «meno Stato» e più libertà (dallo Stato). Senza negare che nel corso del tempo siano state varate alcune buone leggi che andavano in quella direzione, è però un fatto che, nel complesso, siamo sempre fermi allo Stato asfissiante, iper intrusivo, presente comunque, dappertutto. Perché?
Ci sono quattro possibili spiegazioni. La prima è la più comune e fa riferimento alle insufficienze della leadership. Viene variamente declinata a seconda del livello di simpatia/antipatia per Berlusconi. C’è chi sostiene che Berlusconi sia più bravo a fare campagne elettorali che a governare. C’è chi (gli antiberlusconiani duri e puri) dice che egli sia interessato solo «ai fatti suoi». Quest’ultima è una tesi debole: i politici fanno tanto meglio «i fatti loro» quanto più riescono a soddisfare le domande sociali su cui hanno costruito il consenso. Fu perché scontentò una parte degli elettori che Berlusconi perse le elezioni del 2006. E c’è, infine, chi, forse più plausibilmente, pensa che fra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare: attuare una vera rivoluzione liberale è difficilissimo, richiede che, non solo qualche ministro qua e là, ma l’insieme del governo sia dotato, oltre che di fortissime convinzioni condivise (che non ci sono mai state nei governi Berlusconi), anche delle capacità che davvero lo mettano in grado di attuare, nei vari comparti, una così complicata impresa. La seconda spiegazione fa riferimento alla mancanza di risorse. «Meno tasse per tutti» era uno slogan liberale (il livello di tassazione è la misura più oggettiva possibile del grado di intrusione dello Stato nella vita di ciascuno).
Se non che, le condizioni della nostra finanza pubblica impedivano, prima della crisi mondiale, e impediscono a maggior ragione oggi, una drastica riduzione delle tasse (che, detto per inciso, sarebbe anche la più potente arma contro l’evasione). La tesi è condivisibile ma solo se si ritiene che lo Stato non possa dimagrire, che non si possa «affamare la bestia», che la spesa sia incomprimibile.
La terza spiegazione, quella preferita da Berlusconi e i suoi, fa riferimento alla forza degli oppositori (più quelli istituzionali, come la magistratura, che quelli politici). È la tesi del «non mi lasciano lavorare». Ma Berlusconi ha vinto tre volte le elezioni e ha avuto due lunghe esperienze di governo (contando anche quella in corso). Le resistenze esterne possono rallentare l’attuazione di un disegno perseguito con costanza, non impedirla.
C’è poi la quarta spiegazione (con cui ha a che fare anche quella mancanza di reazioni di cui parlavo all’inizio dell’articolo). L’idea è che in Italia una riduzione sensibile del peso dello Stato interessi a pochissimi. Il paradosso italiano è che, a livello superficiale, c’è una diffusa, e antica, ostilità per lo Stato. A un livello più profondo, però, pur parlando sempre male dello Stato, gli italiani, a maggioranza, sono in realtà stato-fili, si attendono dallo Stato la soluzione di tutti i problemi. Continuano, invece, ad essere in netta minoranza gli stato-fobi, coloro che ritengono che lo Stato sia il problema anziché la soluzione. Che gli statofili siano fortissimi in Italia è dimostrato, ad esempio, dalle furibonde reazioni che si scatenano tutte le volte che c’è qualche «taglio» alle spese. Anziché assumere i tagli come una occasione d’oro per razionalizzare la spesa, tagliare quella improduttiva, clientelare, eccetera, e magari pretendere che il governo si decida a rendere fiscalmente conveniente il mecenatismo privato nelle attività culturali, scientifiche, educative, gli statofili denunciano i tagli come se fossero crimini intollerabili.
È normale, data la nostra storia, che gli statofili siano la quasi totalità degli elettori della sinistra. Il problema è che sono maggioritari anche a destra. Nelle coalizioni di centrodestra che hanno fatto vincere Berlusconi nel 1994, nel 2001 e nel 2008, c’era certamente una significativa componente di statofobi (sono questi gli elettori che Berlusconi ha più deluso) ma non sono mai stati maggioritari. C’entra, ovviamente, l’eterogeneità degli interessi che una coalizione elettorale vincente, anche di centrodestra, deve mettere in piedi. E c’entra la divisione Nord/Sud ma solo fino a un certo punto: non si è mai vista, ad esempio, una gran voglia di liberalizzazioni fra i leghisti.
La tanto predicata rivoluzione liberale, insomma, non si può fare. Per tanti motivi ma soprattutto perché gli statofili, oltre ad essere maggioritari in tutti gli schieramenti, sono bravissimi nel presentare qualunque arretramento, anche minimo, dello Stato come il segno della «fine della democrazia», della «abdicazione della politica», e di altre terribili catastrofi. Verrebbe da dire: amen, non parliamone più. Se non fosse che questo meccanismo, oltre a renderci tutti un po’ meno liberi, ha bloccato la crescita economica del Paese e, a meno di eventi imprevedibili, continuerà a bloccarla in futuro.
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