Il destino comune di Pdl e Pd sfidati dal potere periferico

Dalla Rassegna stampa

Seppure con differenze evidenti, Pdl e Pd stanno vi­vendo due destini paralleli. È il braccio di ferro fra un modello di partito nazionale e la rivendicazione di autonomia e di potere delle realtà locali: quelle che un tem­po si sarebbero definite periferiche. Le convulsioni interne del centrodestra siciliano possono essere lette come un fenomeno prettamente isolano. Eppure appaiono speculari alla competi­zione per il primato nel nord, che la Lega ha ingaggiato con il movimento berlusconiano; e che sembra intenzionata a conti­nuare se otterrà davvero la candidatura alla presidenza non so­lo del Veneto ma del Piemonte. In più, ci sono i i vagiti di una «Lega sud» targata Pdl che sta nascendo in Puglia.
È una tenaglia che mette in tensione l’identità del centrode­stra berlusconiano. Mostra una nomenklatura radicata nel terri­torio; e decisa a ridimensionare i referenti «romani», per quanto prestigiosi. Silvio Berlusconi è troppo forte per essere messo in discussione. Ma nelle scelte che il premier sta compiendo si av­verte l’esigenza di assecondare i «governatori»: una sindrome si­mile a quella del Pd che sta per consacrare la nuova segreteria. È la stessa che ha portato mesi fa alle dimissioni di Veltroni, sconfitto da una strategia vellei­taria e dall’ostilità degli apparati.
Le polemiche sui brogli in alcune regioni del sud; il timore di infiltrazioni alle primarie; la contrapposizione fra iscritti ed elettori: sono frammenti di una lotta che può portare alla «bal­canizzazione » del partito guidato da Dario Franceschini, se non a una scissione. E rivela, dietro il conflitto aspro tra il fa­vorito Pier Luigi Bersani e l’attuale segretario, quella fra il «partito delle giunte» e un tentativo, in verità un po’ debole e confuso, di sparigliarlo. Evocando il ritorno ad una forza «di­sciplinata », Bersani offre una sponda agli apparati. Li legitti­ma dopo la sbornia del «popolo delle primarie» e del leaderi­smo inaugurato nel 1996 con la scelta di Romano Prodi.
Il suo richiamo alla collegialità è un segnale e insieme la presa d’atto che il baricentro del potere si è spostato negli enti locali e disperso. Solo lì il Pd continua a pesare, per quanto in modo controverso e nell’incertezza. Non a caso Massimo D’Alema, che di Bersani è il sostenitore più potente, difende dagli attacchi di Franceschini il presidente della Campania, Antonio Bassolino. Definisce la sua esperienza alla regione «fatta di luci e ombre» ma meritevole comunque di rispetto. Ed Enrico Letta nega tentazioni socialdemocratiche di Bersa­ni, per scacciare l’ombra del passato che gli avversari allunga­no su di lui.
Franceschini cerca di sfruttare questa ombra, pur avendo dietro di sé una parte della nomenklatura. Attraverso gli elet­tori delle primarie dice di voler sfidare il potere degli apparati locali: quelli che votando Bersani pensano alla protezione di D’Alema. Dipenderà molto da quanti andranno alle urne; e dal­la prevalenza o meno del voto di quelle regioni «rosse» che ritengono pericolosa un’idea di partito troppo aperto e legge­ro. L’obiettivo è archiviare un modello perdente e ricostruire l’opposizione. Sarebbe la presa d’atto di un fallimento; e l’ini­zio di una fase nella quale il Pd dovrà cercare un nuovo equili­brio senza perdere pezzi: una scommessa eroica.
 

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