D'Ambrosio, il dramma di una storia rovesciata

Dalla Rassegna stampa

Di fronte alla morte di un uomo si resta sconvolti. Se poi quell’uomo era al centro di una polemica furibonda non si può non chiedersi se i toni usati fossero corretti o invece eccessivi e perfino micidiali.

Loris D’Ambrosio è morto da uomo angosciato, si sentiva braccato e provava rabbia e frustrazione per vedersi completamente privato della sua storia, che non è certo storia di collusioni, di contiguità o di zone grigie con poteri mafiosi o criminali.

Provava rabbia nel vedersi confuso, nel gioco delle semplificazioni mediatiche e nel turbine che indica ogni cosa che appartenga alla politica o alle istituzioni come marcia e corrotta, con gli accusati della trattativa tra lo Stato e la mafia. D’Ambrosio con quella non c’entrava niente, la sua colpa era un’altra, aver troppo ascoltato e rassicurato un ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, Mancino, che protestava la sua estraneità e chiedeva aiuto per non essere coinvolto nell’inchiesta palermitana.

La diffusione delle telefonate tra i due ha sollevato tanto clamore da far passare in secondo piano l’oggetto delle indagini: fare finalmente luce su uno dei momenti più bui della nostra storia, chiarire se, mentre Falcone e Borsellino venivano uccisi, c’era chi, nei palazzi del potere, cercava con i boss un accordo che mettesse fine alle stragi.

Di sapere questo abbiamo bisogno, per scongiurare di trovarci ancora una volta a poggiare la nostra storia su verità mancate e giustizie tardive.

E’ appena stato richiesto un processo e tra le persone per le quali si chiede il rinvio a giudizio c’è anche Mancino. Questo mostra che quelle telefonate non hanno avuto gli esiti sperati e che la giustizia non è stata intralciata. Ma D’Ambrosio è stato stroncato da un infarto prima di vedere la conclusione di questa vicenda e la sua morte lascia una tale quantità di tensione che finirà per avvelenare ulteriormente il dibattito in questo Paese.

E’ stato Giorgio Napolitano a dare la notizia della scomparsa del suo collaboratore, con un comunicato scritto di suo pugno da cui emerge tutta l’angoscia e il dolore del Presidente della Repubblica per una «campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose, senza alcun rispetto per la sua storia». Sì, perché la storia di Loris D’Ambrosio era tutt’altra, era fatta di battaglia per la legalità, di impegno antimafia, di conoscenza eccezionale delle leggi.

Anzi, vale la pena ricordare come per anni sia stato accusato, in modo più o meno velato, di essere tutt’altro, di essere l’ispiratore delle motivazioni giuridiche capaci di bloccare, ritardare o bocciare le leggi berlusconiane. E molti di quelli che ieri sera lo hanno indicato come vittima dei pubblici ministeri fino a non troppo tempo fa lo vivevano come una spina nel fianco.

Avevo avuto modo di conoscere Loris D’Ambrosio nella preparazione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi e proprio lo scorso aprile – dopo la sentenza che ha chiuso senza condanne la strage di Piazza della Loggia – mi aveva parlato della necessità di dare attuazione alla legge sul segreto di Stato bloccata da anni. C’era in lui una sincera volontà di far fare un passo avanti alla conoscenza che abbiamo dell’altra grande stagione di misteri italiani, di spendersi perché si aprissero finalmente gli archivi riservati.

Questa era la persona che avevo incontrato e che il pubblico ministero Ilda Boccassini ha ricordato come «un uomo che ha sempre salvaguardato l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».

Ma la barbarie che si è impossessata di molti italiani, anche di quelli che chiedono a gran voce verità, giustizia e che dovrebbero avere perlomeno senso di legalità, ha fatto sì che una gran quantità di commenti apparsi su Internet alla notizia della morte siano assolutamente osceni.

Nessuna pietà, nemmeno il più elementare rispetto dei morti, ma dileggio, ironia e complottismi.

Un fetore nauseabondo, un vizio tutto italiano che dura da decenni e di cui non riusciamo a liberarci. O recuperiamo il senso delle proporzioni e il rispetto per gli altri, abbandonando l’istinto al linciaggio e alla demonizzazione, oppure saremo davvero perduti.

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