È cristiana, non rinnega condannata a morte dal tribunale in Sudan

Miriam Yahya Ibrahim aveva tre giorni di tempo per rinnegare la sua fede e abbracciare l’islam. Ci ha pensato a lungo, sapendo che cosa la attendeva. Un imam ha tentato di convincerla fino all’ultimo, parlandole dentro la gabbia degli imputati nel tribunale El-Haj Yousif di Khartoum. Poi Mariam si è rivolta ai giudici e con serenità ha detto: «Sono cristiana, non ho mai commesso apostasia». Il giudice Abbas Mohammed Al-Khalifa e si è rivolto usando il suo nome musulmano, Adraf Al-Hadj Mohammed Abdullah, e le ha detto che confermava la condanna a morte per impiccagione. Prima dell’esecuzione, la ventisettenne sudanese dovrà subire le cento frustate previste per il reato di adulterio.
La legge del Sudan non la considera sposata, perché le nozze sono state celebrate con un cittadino di fede cristiana e lei è considerata dai giudici musulmana, visto che il padre era di fede islamica. A denunciare la presunta apostasia erano stati i familiari di parte paterna. In realtà il padre aveva abbandonato la famiglia quando la figlia aveva appena cinque armi, e la giovane è stata allevata dalla madre, un’etiope cristiana ortodossa. Mariam è cresciuta seguendo la fede cristiana. Ma per il tribunale penale di Khartoum basta la discendenza da un musulmano perché la donna sia considerata di fede islamica, a prescindere del tutto dalla sua volontà. Per questo il matrimonio con un cristiano non vale davanti a Dio, e dunque la creatura che Mariam porta nel grembo, così come il suo primo figlio, sono solo frutti di adulterio. A niente è servito che la ragazza esibisse il certificato di matrimonio, in cui era definita come cristiana, per garantire che non si era convertita. E i tre testimoni del Sudan occidentale che avrebbero potuto sostenere il suo punto di vista non sono nemmeno stati ammessi a deporre, riferisce l’organizzazione Christian Solidarity Worldwide.
Con tutta probabilità, la sentenza non sarà eseguita: il collegio di difesa di Miriam ha annunciato che farà ricorso in appello e che porterà il caso davanti alla Corte costituzionale. Miriam non potrà comunque essere giustiziata finché è incinta, all’ottavo mese. La stampa sudanese parla di almeno due anni dopo il parto, perché il neonato deve essere allattato. La comunità internazionale si è mobilitata per far pressione sul governo di Khartoum. «La consideriamo una prigioniera di coscienza, perché è stata imprigionata per le sue convinzioni religiose», dice da Londra Manar Idriss, ricercatrice di Amnesty International che segue le vicende sudanesi. Amnesty ha definito «ripugnante» che una donna possa essere condannata a morte per la sua fede religiosa, o frustata perché sposata a un uomo di religione diversa.
Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, chiede al governo italiano che si mobiliti per un’azione urgente di concerto con i partner europei. Secondo i militanti per i diritti umani, la sentenza è in conflitto con le stesse leggi sudanesi, che proclamano la libertà di culto, oltre che in palese contraddizione con la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, un trattato delle Nazioni Unite entrato in vigore nel 1976, a cui anche il Sudan ha aderito. Ma diversi osservatori sottolineano le progressive restrizioni alla libertà di culto, dopo l’introduzione della sharia in Sudan. Secondo l’African Centre for Justice and Peace Studies, questo è il quarto caso di apostasia documentato dal 2007.
L’ultima esecuzione nota di una condanna a morte per apostasia in Sudan è stata effettuata nel 1985. Il condannato era Mahmoud Mohamed Taha, leader del Partito Repubblicano del Sudan, accusato di apostasia per le sue convinzioni politiche e religiose, tra cui la sua opposizione all’applicazione della Sharia. Secondo dati di Nessuno tocchi Caino, nel 2013 il Sudan ha giustiziato 21 persone, due più che nel 2012. Le ultime esecuzioni di donne risalgono al 2011, quando due donne sono state impiccate in seguito a una condanna per omicidio da parte del tribunale di Hay al-Nasr: i giudici avevano riconosciuto le due imputate colpevoli di aver ucciso a sassate un bambino per vendicarsi di un torto subito dalla madre.
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