Crisi siriana, bene ha fatto il governo Letta

DOBBIAMO ESSERE ORGOGLIOSI, COME ITALIANI, DELLA POSIZIONE DEL NOSTRO GOVERNO SULLA SIRIA. UNA POSIZIONE NON FACILE, MA GIUSTA. Le critiche dei soliti editorialisti, alcuni dei quali hanno persino irriso inizialmente una posizione che giudicavano timida e inutilmente distinta e distante da quella del governo statunitense e di altri governi dell’Occidente: ma chi crediamo di essere noi italiani! E poi le pressioni delle tante cancellerie amiche perché non ci isolassimo. Critiche e pressioni a cui il governo ha saputo resistere per affermare una posizione semplicemente razionale. È bastato poco tempo per vedere i risultati. Come ha rilevato il ministro Mauro alla Festa democratica di Genova, assistiamo a una specie di «contagio della ragionevolezza». Direi dell’intelligenza politica più ancora della ragionevolezza. In altri tempi, quando l’attenzione dell’opinione pubblica alle vicende internazionali era giustamente alta ci sarebbe stato un riconoscimento positivo anche attraverso manifestazioni popolari. Il silenzio dei movimenti pacifisti oggi è sorprendente. La gente sembra non vedere più le cose importanti che la politica sta facendo. A me pare che la posizione del governo Letta meriti da sola la fatica del suo sostegno politico: sono importanti i provvedimenti sull’Imu, gli esodati, i cassintegrati, ma questa scelta non è meno importante. Merito del presidente del Consiglio, ma non meno dei ministri Bonino e Mauro. Non è, quella del governo, una scelta pacifista, cioè di mero rifiuto dell’intervento militare, ma una scelta che rivela intelligenza politica e che ha interrotto l’adesione acritica a strategie a cui negli ultimi anni ci eravamo adeguati. Non più le guerre preventive o gli interventi punitivi. Ma la ricerca delle soluzioni efficaci, politicamente efficaci.
È stato ripristinato il principio che senza il consenso dell’Onu non si interviene militarmente. E, se è vero che l’Onu per la mancanza della sua riforma oggi è paralizzato, non è men vero che occorre una valutazione di merito sulle modalità degli interventi, sui fini e sulle conseguenze prima di autorizzarli. A maggior ragione in un’area a forte potenzialità d’esplosione com’è diventata quella mediterranea. Non si tratta di mostrare i muscoli, di punire (chi? Come? A che titolo? Dopo quali verifiche?), ma di capire ciò che serve a risolvere le questioni aperte. Dopo il fallimento delle «primavere arabe» e la sostituzione delle dittature militari con dittature religiose, dopo il completamento dell’area dell’incendio in quasi tutto l’anello del bacino mediterraneo, è quantomai necessario fermarsi e capire come spegnere l’incendio anziché intervenire per «vedere l’effetto che fa». Si è detto: dopo la strage di tanti bambini e civili incolpevoli con il gas, anche se nessuno dei due contendenti merita fiducia e appoggio, non si può stare con le mani in mano. Cosa si dovrebbe fare, allora? Colpire chi? Bombardare cosa? Per ottenere quale obiettivo? Punire e poi ritirarsi e lasciare tutto come prima? Gli articoli degli ambasciatori Rocco Cangelosi e Giuseppe Cassini su l’Unità ci hanno dimostrato con competenza e conoscenza della situazione come ci troviamo di fronte all’esplosione di un conflitto drammatico interarabo fra sunniti e sciiti e, addirittura, fra diverse fazioni sunnite, probabilmente finanziate, per ragioni che in parte sfuggono agli occhi superficiali delle cancellerie occidentali, da Paesi che pure vengono - per ragioni economiche, commerciali, energetiche - considerati «amici». Proprio ora che in Iran si sta delineando un cambio di strategia nelle relazioni con l’Occidente, sarebbe delitto politico non coinvolgere quel Paese in una strategia di soluzione della tragedia siriana. Tutto ciò l’Italia sta mostrando di averlo capito, grazie anche alla conoscenza del quadro politico della ministra Bonino. I laburisti britannici, io spero nei prossimi giorni anche i socialisti francesi finora silenziosi di fronte alla scelta «d’impulso» del presidente Hollande, gli stessi democratici americani e soprattutto il presidente Obama, forse hanno guardato e imparato qualcosa dal realismo intelligente di un Paese «periferico» e molto indebolito che però ha recuperato l’ambizione di altri tempi di voler dire la propria quando si tratta di un’area che conosce meglio di altri, e che abita con la responsabilità che la geografia e la storia gli assegnano, com’è appunto l’Italia. Confido che nel tempo concesso dalla decisione di Obama di voler investire il Congresso serva all’Europa e soprattutto all’Italia per elaborare una iniziativa politica in linea con la decisione già assunta. Ginevra 2 o Roma 1 potrebbero essere i tavoli attorno a cui cominciare a costruire una dialogo che coinvolga le fazioni in lotta e i paesi che possono aiutare, compresa la Russia. Il presidente Letta che è stato già protagonista al G8 di Londra per inserimento in agenda della priorità del tema del lavoro, potrà al G 20 di Mosca tentare un nuovo protagonismo avvalendosi della forza e del prestigio che oggi l’Italia si è guadagnata. Ecco perché dobbiamo essere orgogliosi dell’iniziativa tutt’altro che timida e sprovveduta del nostro governo.
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