Crisi Pd, i cattolici duri. "La rottura è possibile"

«E a proposito di cose serie o di cazzate, voglio dire chiaro che chiedere un cambio di passo non significa dire cazzate, ma è un atto di amore verso il Pd». Alza il tono della voce e strappa una mezza ovazione Dario Franceschini quando chiude la tre giorni di Cortona della minoranza democrat. Non gli è andato proprio giù che Bersani, mentre venerdì si apriva il congressino di AreaDem, faceva notare da Cagliari che lui si occupava di lavoro e non di c., appunto. «Ci sono rimasto male, è stato fuori luogo», confessa Dario quando il portone dell’ex convento Sant’Agostino si è già chiuso.
Insomma, la minoranza del Pd alza il prezzo, inaugura una stagione "finiana" di dialettica pubblica e permanente con la leadership costituita e anche i toni del linguaggio ne risentono. E per dire che aria tira, alle dieci di mattina nel chiostro monacale, tra una battuta e l’altra i franceschiniani si spingono addirittura a profetizzare che il ritorno in campo di Veltroni non sarebbe mosso dalla riconquista del trono mollato anzitempo, bensì dal prendere in considerazione un cammino più di lungo respiro che punterebbe alla candidatura per la premiership della coalizione. Candidatura, assicurano, che avrebbe il sicuro benestare di Dario, che dal palco ci tiene a dire che «Areademocratica ha il dovere di andare avanti e non ci sono gelosie per i ritorni in campo». Un disegno del genere non trova alcuna conferma dalle parti di Veltroni, dove allignano anzi molti puristi dello statuto come Enrico Morando, il quale al contrario fa notare come le "sacre scritture" del Pd prevedano che il leader del partito che ha vinto le primarie è il naturale candidato premier.
Comunque sia, dietrologie a parte, quelli che rappresentano il 40% del Pd vogliono contare di più. Franceschini avvisa Bersani che è il Pd «è a un bivio e si deve aprire senza chiudersi in un fortino difendendo gli spazi, appaltando il consenso a sinistra o al centro», così come rischia se sottovaluta il disagio perché «ci sono state troppe uscite senza che si sia avvertito un dolore». E se Franceschini smentisce volontà scissioniste, ci pensa Fioroni a evocarle. Il comandante delle truppe cattoliche, fa uno show molto applaudito, dice che «è arrabbiato e stufo di questo Pd», che la minoranza «non può fare solo resistenza, ma deve dire a Bersani che se non cambia il Pd è finito e se non riusciremo a rifarlo nel suo spirito originario lo faremo in ogni modo, in ogni forma, ma mai con una federazione». Nega di voler puntare alla vicesegreteria di «un partito che non mi piace» e non vuole «essere corresponsabile di una gestione plurale che non c’è nei fatti», scagliandosi «contro l’attesa di un papa straniero che arrivi da fuori, di un Berlusconi di sinistra».
E quando arriva il suo turno, anche Fassino mette in guardia dal «rischio di qualche silenziosa forma di
abbandono dalle nostre file di chi non si sente a casa», ma lui che ora rappresenta l’ala più lealista della minoranza, modera i toni: «Bersani non deve considerarci un fastidio da sopportare ma un giacimento che può essere a disposizione del partito». E un po’ a sorpresa, l’ex leader dei Ds, quando parla di un Pd marginale al Nord, si lancia in uno sfogo inusuale sulla cosiddetta Padana: «Ve lo dico con franchezza, qualche volta il leghismo nel mio cuore prorompe. Il 70% del lavoro autonomo è al Nord, così come l’85% dell’export del Paese, al Nord l’immigrazione è il doppio della media nazionale, insomma è un fenomeno con un impatto diverso. E la Lega prende voti non per le sezioni, ma perché presidia temi con i quali anche noi dobbiamo fare i conti. D’altronde anche nel programma del Labour c’è scritto che "venire in Gran Bretagna è non un diritto, ma un privilegio"...».
Insomma, la minoranza del Pd alza il prezzo, inaugura una stagione "finiana" di dialettica pubblica e permanente con la leadership costituita e anche i toni del linguaggio ne risentono. E per dire che aria tira, alle dieci di mattina nel chiostro monacale, tra una battuta e l’altra i franceschiniani si spingono addirittura a profetizzare che il ritorno in campo di Veltroni non sarebbe mosso dalla riconquista del trono mollato anzitempo, bensì dal prendere in considerazione un cammino più di lungo respiro che punterebbe alla candidatura per la premiership della coalizione. Candidatura, assicurano, che avrebbe il sicuro benestare di Dario, che dal palco ci tiene a dire che «Areademocratica ha il dovere di andare avanti e non ci sono gelosie per i ritorni in campo». Un disegno del genere non trova alcuna conferma dalle parti di Veltroni, dove allignano anzi molti puristi dello statuto come Enrico Morando, il quale al contrario fa notare come le "sacre scritture" del Pd prevedano che il leader del partito che ha vinto le primarie è il naturale candidato premier.
Comunque sia, dietrologie a parte, quelli che rappresentano il 40% del Pd vogliono contare di più. Franceschini avvisa Bersani che è il Pd «è a un bivio e si deve aprire senza chiudersi in un fortino difendendo gli spazi, appaltando il consenso a sinistra o al centro», così come rischia se sottovaluta il disagio perché «ci sono state troppe uscite senza che si sia avvertito un dolore». E se Franceschini smentisce volontà scissioniste, ci pensa Fioroni a evocarle. Il comandante delle truppe cattoliche, fa uno show molto applaudito, dice che «è arrabbiato e stufo di questo Pd», che la minoranza «non può fare solo resistenza, ma deve dire a Bersani che se non cambia il Pd è finito e se non riusciremo a rifarlo nel suo spirito originario lo faremo in ogni modo, in ogni forma, ma mai con una federazione». Nega di voler puntare alla vicesegreteria di «un partito che non mi piace» e non vuole «essere corresponsabile di una gestione plurale che non c’è nei fatti», scagliandosi «contro l’attesa di un papa straniero che arrivi da fuori, di un Berlusconi di sinistra».
E quando arriva il suo turno, anche Fassino mette in guardia dal «rischio di qualche silenziosa forma di
abbandono dalle nostre file di chi non si sente a casa», ma lui che ora rappresenta l’ala più lealista della minoranza, modera i toni: «Bersani non deve considerarci un fastidio da sopportare ma un giacimento che può essere a disposizione del partito». E un po’ a sorpresa, l’ex leader dei Ds, quando parla di un Pd marginale al Nord, si lancia in uno sfogo inusuale sulla cosiddetta Padana: «Ve lo dico con franchezza, qualche volta il leghismo nel mio cuore prorompe. Il 70% del lavoro autonomo è al Nord, così come l’85% dell’export del Paese, al Nord l’immigrazione è il doppio della media nazionale, insomma è un fenomeno con un impatto diverso. E la Lega prende voti non per le sezioni, ma perché presidia temi con i quali anche noi dobbiamo fare i conti. D’altronde anche nel programma del Labour c’è scritto che "venire in Gran Bretagna è non un diritto, ma un privilegio"...».
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