Così massacrarono Tortora

Quando il 17 giugno del 1983 scattò da Napoli il blitz che portò in carcere oltre 800 persone
fra cui Enzo Tortora, la parola "pentito" era già entrata nella cronaca giudiziaria ma riguardava
i processi per fatti di terrorismo o comunque processi "politici".
Con la retata napoletana nasce la figura del pentito di criminalità organizzata.
Per la verità c`era un remotissimo precedente che risaliva ai primi del secolo: un processo ai
capi della camorra nato dalla deposizione di un giovane cocchiere, Gennaro Abbatemaggio, a proposito di un duplice omicidio, il delitto Cuocolo. Già negli anni 50 era opinione comune fra gli storici che quel processo si fosse basato su accuse false, organizzate dai carabinieri, per incastrare camorristi veri. Abbatemaggio si immedesimò nel ruolo e nel secondo dopoguerra si
propose come super-testimone in altri processi clamorosi, divenendo una triste macchietta.
Il precedente avrebbe dovuto consigliare prudenza. Ma prudenza non ci fu, anzi l`arresto "eccellente" finì per avere la funzione di schermo all`incredibile pressapochismo della operazione. Tutti i media si concentrarono su Tortora facendo passare quasi sotto silenzio l`autentica
enormità, rivelatasi poche settimane dopo il blitz, di un numero altissimo di arrestati "per omonimia". Sulla base delle liste stilate da due pentiti furono portate a Poggioreale una
novantina di persone che avevano il nome e il cognome uguali a quelli citati negli elenchi ma età e situazioni familiari diverse, insomma erano le persone sbagliate. Novanta su 855 mandati di cattura, praticamente il 10%.
Una percentuale accettabile, disse ai giornalisti Luciano Violante, considerata l`enorme mole di lavoro dei magistrati inquirenti. Fu allora che i radicali- che avevano appena portato Toni Negri in Parlamento sull`onda della battaglia garantista sul 7 aprile - cominciarono a occuparsi anche del processo di camorra e della sua "macelleria giudiziaria" come la chiamò Pannella. Più chel`innocenza dì Tortora furono le evidenti colpe della Procura napoletana a muoverli. Quanto alle gestione dei pentiti le cose volsero di male in peggio. I due erano molto diversi fra loro. Uno, Pasquale Barra detto `o animale", aveva sulle spalle condanne per qualche decina di omicidi, compiuti fuori e dentro le carceri. L`altro, Giovanni Pandico, era finito in galera per aver ucciso due funzionari comunali che tardavano a dargli un certificato. Uno psicopatico più che un camorrista, che in carcere diventa scrivano del "grande capo" Raffaele Cutolo e a un certo
punto decide di mettere a frutto le carte accumulate. Una specie di Mitrokhin della camorra.
La molla del pentimento stava perentrambi nello sfascio della organizzazione cutoliana ormai ridotta a mal partito non dall`iniziativa della magistratura ma dalla coalizione dei clan rivali. Ai primi due si associarono via via interi pezzi della organizzazione cutoliana e all`inizio del dibattimento, poco meno di due anni dopo, i pentiti erano diventati una ventina. Molti di loro all`inizio vennero sistemati in una caserma dei carabinieri (la stessa che 90 anni prima aveva ospitato Abbatemaggio) per meglio isolarli l`uno dall`altro. In realtà organizzarono festini a base di champagne e ragazze allegre, una delle quali rimase incinta e divenne una eroina da rotocalco.
La stampa più "seria" continuò a far finta di non vedere e a erigere un monumento agli inquirenti ritenuti sagaci investigatori che avevano colpito il "terzo livello" della camorra. Solo che a parte Tortora i "colletti bianchi" erano rappresentati da un assessore ventenne di Ottaviano, un
consigliere provinciale socialdemocratico, un prete, una suora e un paio di avvocati. Per rafforzare almeno il cotè televisivo qualche pentito decise, con scarsa fantasia, di chiamare in causa Franco Califano che venne prontamente arrestato. La profondità e il metodo dell`indagine furono svelati in una udienza di un "troncone" secondario del maxiprocesso: viene sentito l`alto ufficiale
dei carabinieri che ha presieduto alla fase operativa delle indagini. Un giudice gli chiede se avevano fatto indagini bancarie sui nomi propostidai pentiti e la risposta è negativa. «Allora avete disposto intercettazioni telefoniche?» «Nossignore». «Pedinamenti, forse?». «Assolutamente
no». L`esilarante botta e risposta non trovò eco su nessun giornale. Radio radicale ne fece uno
spot che mandò a tormentone. Dei 243 imputati del "troncone Tortora" solo 77 risulterano condannati in appello e poi in Cassazione. Due su tre saranno assolti. I due PM che ordinarono gli arresti hanno proseguito la loro carriera uno al Csm, l`altro alla direzione nazionale antimafia.
Il giudice estensore della sentenza di appello è stato mandato a dirigere la Procura di Campobasso. Quando, in visita all`Ucciardone negli anni 80, Pannella si sentì chiedere perché per il maxiprocesso istruito da Falcone non faceva come a Napoli, la risposta fu, una volta tanto, breve: «Perché sono diversi gli imputati, sono diversi i pentiti e, soprattutto, sono diversi i magistrati».
© 2010 Gli Altri. Tutti i diritti riservati
SU
- Login to post comments