Così Macaluso rende compagno Sciascia

Leonardo Sciascia è, assieme a Pier Paolo Pasolini, l'intellettuale italiano più esposto a strumentalizzazioni politiche. Non solo per generosità intellettuale e fertilità immaginifica. Anche perché entrambi hanno vissuto, ora con passione ora ideologia, sebbene da eretici (peggio degli infedeli, nell'ottica degli ortodossi), da rapporti di amore e odio con i partiti, soprattutto con il Pci e in seconda battuta con i radicali. Alcune loro espressioni, metafore, pubblicate sui giornali, in particolare sul giornale della grande borghesia milanese Il Corriere della sera, sono diventate il paesaggio entro cui, ancora oggi, si muovono gli intellettuali italiani. Contro il palazzo, alla ricerca delle lucciole, sui professionisti dell'antimafia, dicendo lo so, ma non ho le prove.
Ecco, rispetto a Pasolini, che in quel Romanzo delle stragi (lo so, ma non ho le prove...) denunciava come l'intellettuale non potesse avere le prove perché altrimenti doveva compromettersi con il potere, per avere le prove, e dunque non essere più libero, Sciascia ha accettato i legami con il potere entrando nell'agone politico in prima persona. Vivendone le contraddizioni - «contraddisse e si contraddisse» volle come epitaffio - e venendo strumentalizzato. A riprova che Pasolini aveva ragione, avere le prove significa sporcarsi le mani, con il potere. O ritrovarselo contro, poi. Se Pasolini, come diceva Mandel'stam messo in esergo al romanzo più incendiario, Petrolio, col mondo del potere non ha avuto che «rapporti puerili» (e d'altronde era in sintonia con la Fgci, non con il Pci), Sciascia con il potere ha avuto «rapporti adulti». Consenzienti e, soprattutto, problematici. Ce li racconta, con il solito rigore intellettuale e l'imperativo categorico di rendere omaggio a un amico, oltre che compagno di avventure e polemiche, e al suo ideale di giustizia cui ha dedicato la vita e l'opera, Emanuele Macaluso, con un libro che esce oggi da Feltrinelli, Leonardo Sciascia e i comunisti che, già dal titolo, pone i sue elementi in maniera distinta. Perché Leonardo, ricorda Macaluso «come ebbe a scrivere egli stesso, non fu né comunista né anticomunista, ma stimò e disistimò il Pci, con cui condivise battaglie significative, in momenti diversi e in rapporto a cià che quel partito, a suo giudizio, faceva o non faceva, come forza di opposizione». Il sentimento della «stima» - umoristicamente rappresentato da Fantozzi che non ama la moglie, ma la «stima» - è un sentimento complesso e contingente, perché la stima può venire meno (o tornare) quando meno te l'aspetti. Ma, soprattutto, è un sentimento critico.
Illuministico, come il bagaglio culturale di Sciascia, un moderno tra gli politici e intellettuali della nostrana magna Grecia. Macaluso racconta molte sfaccettare di Sciascia scrittore (dal racconto La morte di Stalin al romanzo Il giorno della civetta) e politico ma, a differenza di quanti vollero sdoppiarne i ruoli - come Giampaolo Pansa che, su Repubblica, scrisse di Sciascia contro Sciascia - considera due facce della stessa medaglia. E asimmetriche, visto che lo scrittore è politico e, come deputato, come politico, piuttosto impolitico. Almeno, per Macaluso. Sciascia era variabile nei giudizi letterari, come sul Gattopardo che, alla fine, vinse anche lo scetticismo di Sciascia, e in quelli politici. A seconda dei casi, era empirico ed eretico (come Pasolini). Giudicava «di impronta mafiosa» l'operazione Milazzo, l'alleanza del Pci in Sicilia con il Msi per mandare all'opposizione la Dc. Eppure appoggiò, pur con alcune riserve, il compromesso storico. Perché?
Forse - suggerisce la lettura di Macaluso, ma è un'ipotesi di lettura - Sciascia voleva che il Pci avesse nel sistema politico-partitico italiano quella funzione critica, dentro ma contro, che Sciascia aveva nel Pci. Per questo si trovò più a suo agio - come aveva immaginato Macaluso - nel partito dei Radicali. Per temi e schemi d'intervento, contro il Palazzo, i professionisti della politica parlamentare.
Ma il vero nodo che in tanti fecero al fazzoletto di Sciascia (Nando Dalla Chiesa in testa) e Macaluso scioglie è quello che riguarda il tema della giustizia, il garantismo, l'intervento di Sciascia contro I professionisti dell'antimafia (Corriere della sera, nel 10 gennaio 1987). Documenti alla mano, attraverso ricordi personali e articoli del tempo, Macaluso smonta l'idolo garantista di cui soprattutto la destra si è voluta impossessare (da Berlusconi a Sgarbi, da Alfano a quanti oggi criticano Saviano) per delegittimare magistrati e intellettuali impegnati nella lotta alla criminalità. Macaluso non fa sconti a Sciascia, critica la sua reazione emotiva a seguito del comunicato del Comitato antimafia che gli diede del quacquaraquà (Sciascia aveva già vinto, sul piano del linguaggio). Una reazione in cui sostenne che dietro c'era il Pci.
Ma ricorda una cosa semplicissima (che anticipò al Riformista in un incontro alla città del libro di Lecce, a Campi Salentini, circa un anno fa): Sciascia, razionale fino al paradosso (apparente), ricordava che la legge deve essere uguale per tutti soprattutto per chi deve farla rispettare. Se il criterio per una nomina era l'anzianità, bisognava rispettarlo.
Oppure cambiarlo o, almeno, applicarlo a tutti. «A scatenare la bufera - ricorda Macaluso, che poi riporta le critiche soprattutto di Eugenio Scalfari che parlò di «vanità personale» dell'intellettuale - non fu solo per quel titolo chiaramente provocatorio, ma il nome di Paolo Borsellino, indicato come il magistrato promosso procuratore di Marsala dal Csm, scavalcando un collega meritevole e con una maggiore anzianità di servizio. Siccome la regola dell'anzianità era stata codificata dallo stesso Csm, Sciascia fece osservare che la legge è uguale per tutti e i magistrati dovrebbero essere i più ligi. Di fronte all'obiezione che l'esperienza di Borsellino nel campo dei reati di mafia era molto elevata e la sua nomina voleva segnalare un criterio, egli obiettò che un criterio simile non era stato adottato per Giovanni Falcone, al quale per la guida dell'ufficio istruzione di Palermo si era preferito Antonino Meli, più anziano, ma con minor competenza».
Il caso scelto, conclude Macaluso in riferimento alla tragica fine di Falcone (e poi di Borsellino), «era discutibile, ma rientrava in una logica tenuta sempre ferma: violare leggi e regole, se pure a fin di bene, fa comunque male». Macaluso, a pagina 81 del suo libro, ricorda un articolo in cui Sciascia esprime, meglio di quello più celebre e maledetto (se è vero che Paolo Borsellino, come scrive Claudio Fava nel libro I disarmati. Storia dell'antimafia: i reduci e i complici, disse che l'agonia dei magistrati del pool, la loro solitudine, inizia con l'articolo sui professionisti dell'antimafia).
Il 26 gennaio 1987 Sciascia, sempre sul Corsero, scriveva: «La democrazia non è impotente a combattere la mafia. Ha anzi tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge è uguale per tutti, la bilancia della giustizia». Ma «se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette - come alcuni fanatici in cuor loro desiderano - saremmo perduti irrimediabilmente come nemmeno il fascismo c'era riuscito». Mani pulite e l'est-etica della mane-,- ancora non tintinnavano.
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