Il coraggio di una donna negli anni di piombo

Dalla Rassegna stampa

ll Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate rosse di Adelaide Aglietta è un libro troppo poco conosciuto, ma la sua importanza e fecondità è indubbia e la sua attualità certa. Anzitutto racconta di una primavera furibonda, quella del 1978, quando lo scontro armato tra istituzioni e terrorismo, tra il regime politico dell’epoca e l’organizzazione eversiva Brigate rosse, raggiunse l’acme con il rapimento di Aldo Moro. Il primo processo alle Brigate rosse, ai suoi capi storici imputati di “costituzione di banda armata” (nessuno di loro ancora di omicidio), si svolse in quella calda primavera in Corte d’Assise, nella caserma “La Marmora” a Torino. La città era terrorizzata e presidiata militarmente. Nei mesi precedenti, nelle prime fasi del processo, le Brigate rosse avevano ucciso il presidente dell’ordine degli avvocati di Torino, Fulvio Croce, reo di aver accettato di istituire un collegio di difesa d’ufficio contro la volontà degli imputati, e Carlo Casalegno, vice direttore della stampa. Questo era il “clima”. Adelaide Aglietta, torinese, all’epoca segretaria del Partito radicale, fu sorteggiata come giudice popolare dopo che oltre un centinaio di concittadini avevano rifiutato la designazione con vari pretesti. «Ma fra il riconoscere il proprio dovere e il compierlo - scrive Adriano Sofri nella sua premessa alla attuale riedizione del Diario - c’è ancora un buon tratto. C’è la paura per sé e la decisione di vincerla. C’è l’angoscia per la propria famiglia, per le proprie bambine. C’è il proprio ruolo di responsabile di un partito, e di protagonista di battaglie decisive, scelte per convinzione e non imposte da un sorteggio. E c’è la paura di giudicare. Bisogna passare attraverso la tempesta del dubbio». Aglietta, con un linguaggio sobrio e diretto, racconta la sua traversata della tempesta e la sua assunzione del compito, non nasconde le paure che l’attanagliano di fronte alle esplicite minacce alla stessa vita. Affronta quindi il processo ed esprime, con grande franchezza, le impressioni sui vari protagonisti, imputati e giudici, entrando via via nel merito con lucidità e riflettendo sulla cronaca terribile di quei giorni. Emerge infine l’insoddisfazione per un processo che si dipana sempre più stancamente mentre l’attualità politica – i referendum contro le leggi speciali antiterrorismo e contro il finanziamento pubblico dei partiti - incalza. Eppure resta ben salda nel ruolo di giudice popolare: ancorché supplente e priva del diritto di voto, interviene ogni volta che il suo senso di giustizia glielo impone e riprende i magistrati o gli stessi giurati popolari se le paiono assenteisti. «Questo diario è una delle poche, pochissime, testimonianze, nate da un diretta esperienza, che siano state pubblicate in Italia sull’amministrazione della giustizia», scrive Leonardo Sciascia nella prefazione alla prima edizione. Il Diario è anche la testimonianza di una segretaria di partito (la prima donna in quella carica, in Italia), di una radicale e di una nonviolenta che alla violenza dei terroristi, speculare a quella del regime, ha da opporre la propria specificità e proposta politica. Da subito, dalla prima conferenza stampa in cui annuncia l’accettazione, Adelaide Aglietta chiarisce nei suoi termini la posta in gioco. Non si tratta di prendere una posizione tra lo Stato che processa le Br o le Br che processano lo Stato; ciò che è in gioco è l’alternativa a questa opposizione fittizia: è il ripristino della legalità costituzionale e del diritto, anche degli imputati, è la possibilità di espressione democratica della popolazione attraverso i referendum. C’è un altro scenario di violenza che le preme e che più ha subito. Dice: «Nel 1977 abbiamo dovuto condurre decine di digiuni per quasi cento giorni ognuno, per ottenere che alcune distorte e avare notizie raggiungessero l’opinione pubblica. Contemporaneamente nel 1977 è stato sufficiente sparare alle gambe o al cuore di qualcuno perché messaggi politici venissero trasmessi a cinquanta milioni di italiani e per essere sempre più eletti a protagonisti della cronaca politica e antagonisti ufficiali»... «L’informazione di regime, per sua propria ideologia, è omogenea agli assassinii dei cosiddetti partiti armati». Ecco allora sollevata la questione decisiva del controllo dell’informazione, che ritorna carsicamente in tutto il Diario e che è il nerbo fondamentale, ma anche la chiave di volta della sua ineludibile attualità: un’esperienza di fatti lontani, certo, ma sono passati appena 30 anni da quei giorni, la cui rilettura oggi ha molto da insegnare all’Italia del 2009.

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