Contro chi giocano i mercati

La falla greca è il sintomo di un male più profondo: quello delle contraddizioni della costruzione europea. Tanto che oggi è difficile sapere se i mercati stiano giocando contro Atene, o contro la costituzione della Ue.
Non è forse quest’ultima a rendere più vulnerabile la Grecia? Gli effetti della clausola di non salvataggio dei trattati europei vanno molto al di là del previsto. Non solo condannano alla solitudine i Paesi della zona euro- una premessa davvero strana alla costituzione di un’unione ma erigono i mercati ad arbitri di ultima istanza delle regole di bilancio che l’Unione stessa si è data.
Se ai mercati è servito un po’ di tempo per comprenderlo, a questo punto hanno completato il loro apprendistato. Sapevamo già che il patto di stabilità invita gli Stati alla creatività in materia contabile (e se la Grecia ha dato prova di eccellenza in materia, non è certo la sola ad essersi cimentata in quest’arte). Non si immaginava però fino a che punto potessero giungere le conseguenze devastanti della rivelazione di questa creatività, associata allo sguardo riprovatore degli altri Paesi. Si noti che il problema nasce proprio da quest’associazione: altrimenti non si comprenderebbe come mai l’Irlanda, il cui deficit ha raggiunto il 14,7% del Prodotto interno lordo (Píl), sia stata trattata finora in maniera così diversa. Sarà forse come suggerisce Marcello DeCecco - perché le sue norme fiscali sono blande nei
confronti dei capitali?
In materia di finanza pubblica, la zona euro è la regione più «virtuosa» del mondo ricco. In termini di punti del Pil, il suo deficit è di 6,9, e il suo debito pubblico di 84, quando negli Stati Uniti gli stessi dati sono 10,7 e 92, e in Giappone 8,2 e 197! Ma di fatto, trattandosi di una regione e non di un Paese, l’Unione Monetaria Europea non è caratterizzata da alcuna forma di solidarietà di bilancio. Lo ha fatto sapere, e così facendo ha aperto spazi speculativi ai mercati.
Sul territorio di una nazione non manca mai un anello debole; ma grazie alla presenza di un minimo di solidarietà, la nazione se ne fa carico, e di conseguenza ne esce rafforzata. Non si contempla neppure la possibilità di espellerlo, poiché in tal caso la nazione stessa ne uscirebbe ridotta come una pelle di zigrino. Eppure è proprio questa l’ipotesi ventilata da qualcuno (nei riguardi della Grecia), per salvare la zona euro: strano salvataggio, dato che preluderebbe alla sua scomparsa.
Avranno valutato fino a che punto il solo accenno a una tale possibilità abbia intensificato la speculazione sui mercati? Se si portasse all’estremo uno scenario del genere, la progressiva eliminazione degli anelli deboli finirebbe per lasciare soli i Paesi virtuosi, i quali di conseguenza perderebbero tutti i benefici della loro virtù. In effetti, cosa resterebbe dei vantaggi competitivi di cui godono, se tutti i loro excompagni di strada svalutassero le rispettive monete?
Certo, la Grecia ha barato; ma non lo ha fatto il Portogallo, e neppure la Spagna o l’Irlanda. La stessa difficoltà di finanziamento potrebbe sorgere in qualunque Paese caratterizzato da una finanza pubblica in situazione degradata, cioè praticamente ovunque. Di fatto, non mi risulta che i mercati siano animati da considerazioni di carattere morale. Qual è allora il meccanismo implicito del ritorno alla virtù, non scritto dei Trattati, ma che discende logicamente dalla «costituzione europea»? La risposta si trova nella dottrina dell’economia di mercato: flessibilità dei salari e dei prezzi. L’austerità di bilancio alla quale il Paese si vedrebbe costretto - con tagli alla spesa e/o aumento delle imposte - deprimerebbe ulteriormente la sua domanda interna, facendo crescere la disoccupazione e l’accumulo dell’invenduto nei magazzini, con la conseguente compressione di salari e di prezzi: una svendita generale, insomma, del lavoro come dei beni di consumo, che incentivando la domanda stimolerebbe le assunzioni.
Non solo: il calo generalizzato dei prezzi e dei costi accrescerebbe la competitività del Paese: un effetto analogo a quello che si otterrebbe con una svalutazione della sua moneta (ma in questo caso ad abbassarsi sarebbe il tasso di cambio reale, e non quello nominale). In breve, si suppone che l’aggiustamento dei Paesi, in assenza di mobilità del lavoro (assai limitata in Europa, in ragione di ostacoli culturali e linguistici) si compia attraverso la deflazione.
Di fatto, la crisi ha preso quella piega; ma data la sua causa - l’eccessivo indebitamento privato - e la sua conseguenza- la crescita universale dell’indebitamento pubblico- l’opzione politica della deflazione semplicemente non è disponibile, visto che il suo effetto sarebbe quello di far lievitare il debito (privato e pubblico) in termini reali. E tuttavia la tragica mancanza di un’intesa europea potrebbe far precipitare involontariamente uno sviluppo in questo senso, se di volta in volta ciascun Paese si vedesse costretto all’austerità.
Sarà necessario allora accorrere nuovamente in aiuto ai creditori per salvare il sistema - a meno di lasciar cadere le braccia, come negli anni 30. Qualunque sia l’accoglienza che si riserverà alla decisione dell’Eurogruppo del 2 maggio, abbiamo oramai la prova del costo esorbitante di una paralisi decisionale delle istanze europee.
La zona euro accusa fin d’ora un ritardo di crescita rispetto alle altre grandi regioni del mondo, sia per mancanza di coesione che per eccesso di ortodossia dottrinale. Anziché avvantaggiarsi di una finanza pubblica più sana che altrove, l’Ue spende tutte le sue energie per far quadrare i conti del passato, invece di costruire il futuro. Tutto questo rassomiglia in maniera sorprendente a una «congiura degli imbecilli», per riprendere il titolo in francese del bel romanzo di John Kennedy Toole.
Traduzione di Elisabetta Horvat
© 2010 La Repubblica. Tutti i diritti riservati
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