Contratto? Non "unico"

Dalla Rassegna stampa

Sergio D'Antoni e Pietro Ichino, nell'interessante dibattito che si è aperto sulle pagine di Europa, convergono su un punto: parliamo di "diritti di lavoro", più che di "contratto unico". È un passo avanti. Si sgombra il campo dall'equivoco che possa esistere una sola modalità, uguale per tutti, per regolare le condizioni di lavoro, normative e salariali.

Il lavoro si articola in molti modi e la competitività delle imprese e la tutela del lavoro risultano più efficaci quando le relazioni si misurano con le reali situazioni culturali, di esperienze professionali e livelli tecnologici, di rapporti sindacali e sociali, di condizioni produttive e di mercato.

Se, dunque, da un lato, la pletora attuale di contratti di ingresso va semplificata per superare l'abuso di precarietà, dall'altro, ci sono situazioni - quali a esempio, la vera stagionalità (breve o lunga), la singola prestazione occasionale, t apprendistato - che non possono essere ricondotte alla casistica generale delle assunzioni a tempo indeterminato.

Questo approccio deve valere anche per la conclusione del rapporto di lavoro. Intanto perché la gestione degli "esuberi", ovvero i licenziamenti collettivi, viene, da anni, gestito, pur con le inevitabili difficoltà, con accordi sindacali efficaci. Mobilità, cassa integrazione, ricollocazione sono gli strumenti che mettono al riparo, sia le aziende che i lavoratori, da un eccesso di conflittualità senza fine e dal massiccio ricorso al giudice, che deve restare, nei conflitti di lavoro, la estrema ratio. Sono, in ogni caso, possibili dei passi in avanti, soprattutto se, anziché concentrarsi su articolo 81 della costituzione e articolo 8 della manovra, il governo facesse davvero la riforma degli ammortizzatori sociali.

Ciò di cui si discute davvero, quando si parla di contratto unico, è di licenziamenti individuali. È ben diverso, anche Emma Bonino lo ammetterà, ragionare della soluzione del rapporto di lavoro per chi si trova agli esordi della vita professionale, piuttosto che per persone con alle spalle una carriera, una storia, una famiglia, una età matura... In quest'ultima fattispecie, quale può essere la causa del licenziamento? I picchi di mercato no, visto che rientrano nella gestione collettiva sopra descritta. Peraltro, è difficile dimostrare che è un singolo dipendente a condizionare le sorti produttive dell'intera impresa. Ciò può succedere nelle piccolissime aziende, ma queste, come sappiamo, non subiscono le tutele previste dall'articolo 18.

Non per fatti incresciosi che attengono ai comportamenti individuali; questi sono regolati dalla giusta causa, ma anche da stringenti regole contrattuali che non difendono gli indifendibili. Nessuno prende, ovviamente, in considerazione cause quali la rappresaglia sindacale, politica o le discriminazioni sessuali.

Cosa resta, dunque, di tanto clamore? Un generico scarso rendimento individuale, sulla cui prova, francamente, in uno stato di diritto, non ci si può affidare alla opinione unilaterale di una delle due parti, ma, rispetto alla quale, salvo i casi previsti, per l'appunto, dalla giusta causa, è legittimo chiedersi come mai il datore di lavoro si accorga di ciò dopo 10, 20 anni di... collaborazione. Ci vuole, dunque, prudenza nel fare di ogni erba un fascio.

Certo, è pur vero che, a ridosso dei sessant'anni, si può essere meno efficienti di un trentenne e... costa meno, ma, nell'ipotesi che il datore di lavoro possa interrompere unilateralmente il rapporto di collaborazione a qualsiasi età, come vengono tutelate la esperienza, la conoscenza, l'affidabilità e, diciamolo senza remore, la dignità?

Allora, la vera questione, dalla quale muove anche Ichino, e che dovrebbe costituire la vera priorità per tutti: il problema del lavoro dei giovani, per ridurre il precariato, va affrontata con uno scambio, innanzi tutto, interno alla condizione giovanile. Per dirla senza giri di parole, stiamo parlando, a fronte di un contratto di accesso a tempo indeterminato per tutti (fatte salve le casistiche specifiche accennate all'inizio), di un "allungamento" del periodo di prova? Stiamo parlando (perché ha ragione D'Antoni che esiste anche un problema di costi) di una completa e non costosa totalizzazione e di una generale armonizzazione dei contributi previdenziali (questione che nella sua replica Emma Bonino sottovaluta), in cambio di una flessibilità in uscita che, pur partendo da un innalzamento della età di pensionamento, consenta di decidere, col sistema contributivo, il momento di andare in pensione? Stiamo parlando di una nuova edizione di "diritti universali", quali, a esempio, la tutela della maternità, della malattia, del riposo, da sottrarre alla vulnerabilità contrattuale? Se è così la discussione si sposta davvero sul terreno auspicato di una generale ridefinizione dei diritti e vale la pena affrontarla.

La gestione della complessa, e non conclusa, fase di crisi economica e sociale ed il bisogno di avviare una pur lenta, ma certa, crescita, debbono scommettere su un sistema di relazioni e di regole fondato sul coinvolgimento e la responsabilità di tutti. Per questo, soprattutto sulle questioni del lavoro, è utile che la politica si ispiri al... principio di precauzione e privilegi la ricerca di soluzioni innovative, ma condivise e non di lacerazione.

 

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