I conti amari del vincitore

«Lasciaci soli, dobbiamo discutere tra noi». Barack Obama reprime la rabbia ed esce. Messo alla porta in casa sua, alla Casa Bianca, dai leader del Congresso nel momento culminante del negoziato sul debito pubblico. Repubblicani ma anche democratici, uomini del suo partito. È la scena più drammatica di The Price of Politics , l'ultimo libro di Bob Woodward. Dipinge con crudezza la parabola di un uomo che, incoronato quattro anni fa come il leader capace non solo di realizzare un cambiamento ma di trasformare l'America, è riuscito ad evitare il peggio - in economia, sulla sicurezza, nei rapporti internazionali - senza, però, riuscire a imporre le sue scelte per il rilancio dell'economia e arrestare il declino della superpotenza.
Il presidente ha capito fin dal primo momento che rischiava di essere schiacciato dalle sue stesse promesse «kennediane». «Non faccio miracoli, non cammino sulle acque» rispose, appena insediato, nel 2009, a chi pensava che potesse risolvere la crisi con un esorcismo. E impostò fin dall'inizio una campagna elettorale che per imponenza, uso massiccio della tecnologia, «schedatura» digitale degli elettori, spese miliardarie, capillarità, impiego di personale stipendiato per anni, ricorda più i metodi dei vecchi «notabili» democristiani che non quelli del leader carismatico che aveva aperto i cuori in mezzo mondo.
Fino a qualche tempo fa questa sembrava la sfida: un grande campaigner che sa come aggregare, in un modo o nell'altro, il consenso, ma senza programmi e poca leadership , contro un Mitt Romney con una sua ricetta economica chiara, anche se per certi versi estrema e di dubbia praticabilità. Uno che saprebbe dove «mettere le mani» ma, davanti agli elettori, ha il fascino di un amministratore di condominio.
Le ultime settimane della campagna ci hanno consegnato uno scenario radicalmente diverso. Romney da un certo punto in poi ha ritrovato smalto, è apparso più sicuro di sé. Credibile e rassicurante anche per molti centristi. Ma ha ottenuto questo risultato annacquando il suo programma, facendo promesse anche a chi (pensionati, studenti della scuola pubblica, pazienti della sanità per i poveri e gli anziani) dovrebbe essere il naturale destinatario dei suoi tagli di spesa. Di più: non ha mai spiegato come sia possibile far tornare i conti riducendo il prelievo fiscale al 20 per cento del Pil e senza mutilazioni del welfare . E quando i tecnici «nonpartisan» del Congressional Research Service hanno pubblicato una ricerca che esclude ogni correlazione tra calo delle tasse sui ricchi e rilancio dell'economia, i repubblicani hanno chiesto e ottenuto il suo ritiro.
Quanto a Obama, dopo lo smarrimento nei giorni della convention e il crollo nel primo dibattito, ha ripreso un po' di slancio, ma con un messaggio che è sempre più monocorde: «Fidatevi di me, farò del mio meglio». Programmi ancora zero, ma stavolta perché il presidente sa che, se domani verrà rieletto, dovrà concludere quel grand bargain coi repubblicani fallito l'anno scorso: più tasse, ma soprattutto pesanti sacrifici sociali, in particolare per gli anziani. È quello che temono (anche sulla base di qualche battuta di Obama) i liberal e i sindacati che lo votano col fiato sospeso.
Chiunque vinca domani, dal giorno dopo sentiremo parlare soprattutto della crisi fiscale che l'America deve evitare. E della ricetta bipartisan antidebito e antirecessione dei due saggi Simpson e Bowles che uscirà dai cassetti nei quali Casa Bianca e Congresso l'hanno sepolta due anni fa.
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