Il confronto all'americana

Dalla Rassegna stampa

C'è voluto mezzo secolo, ma finalmente ho visto anche in Italia quell'indispensabile rito di buona politica che è il confronto faccia a faccia in diretta tv. Yes we can, possiamo anche noi avere dibattiti politici civili. Abbiamo raccontato mille volte, invidiato e mitizzato dal 1960 The Debate, il Duello che oppose Kennedy a Nixon, il rito è sbarcato anche sui nostri teleschermi. Dopo tante americanate trash e provinciali di musichette, ragazze pon pon, spot, un buon esempio made in Usa è stato imitato. Per chi, come me, ha vissuto questo classico della democrazia dozzine di volte negli Stati Uniti, poter vedere in Italia questo remake ha fatto uno strano, ma piacevole effetto di novità e di déjà vu insieme.

A parte la cafonata polemica dell'enorme scritta Rai sui podi, anche le parole introduttive della brava Monica Maggioni, i tempi, le domande, i battibecchi, sono stati riprodotti e rispettati puntigliosamente, sapendo che lo stile fa sostanza.

Naturalmente mai un candidato americano avrebbe osato presentarsi in maniche di camicia come ha fatto Matteo Renzi, con un tocco di gigioneria che il pubblico Usa non avrebbe accettato. E gli applausi, nei dibattiti futuri, andrebbero banditi, per non sprofondare nella fossa delle claque. Ma ciascuno aveva le proprie battutine predisposte dai ghost writer: "In Italia non siamo qui a suonare i mandolini, ma a lavorare" di Bersani, "il debito va ridotto perché me lo dice la coscienza, mi'a la Merkel" di Renzi.

Il segreto di questi confronti è riuscire a stabilire un rapporto con chi ascolta, a creare una narrazione che ogni telespettatore avverta come diretta a sé. Si scelgono persone, non manifesti. Per questo sono gli sguardi e le smorfie, i gesti inconsci e il body language, i segnali politici che il pubblico assorbe spesso inconsciamente. Lo avrebbe potuto spiegare bene Barack Obama che per avere sbagliato il proprio atteggiamento nel primo scontro con Mitt Romney rischiò il trono.

Renzi, dei due, era il più ostentatamente americano, quello che con più naturalezza applicava le tecniche messe a punto in mezzo secolo di dibattiti negli Usa. Per eccesso di apparente sicurezza era semmai troppo brillante e garrulo, ai miei occhi velati da decenni di diffidenza per i Reagan e Clinton, per Obama e i Bush, per i Kerry e McCain, e per le formule predisposte dagli spinner, gli autori delle battute su Emilio Fede e la Santanché, fin troppo facili.

Era una disinvoltura naturale per un giovane della "tv generation", nato quando ormai la televisione italiana aveva vent'anni, svezzato a telequiz, consigli per gli acquisti, varietà, spot. Tanto giovane da essersi lasciato sfuggire quell'allusione a "un Gianburrasca qualsiasi", timoroso di apparirci più discolo che statista. Ma tanto era chiaro che Renzi era figlio del teleschermo, quanto era evidente che il suo rivale, Bersani, era figlio di un altro tempo, migliore o peggiore che fosse.

Il segretario del Pd ha più anni della tv italiana, è nato prima di Lascia o Raddoppia? e di Carosello. Il suo è l'universo serio della sezione, delle serate noiose concluse da Bersani il "bravo compagno". Ma i tempi del dibattito in sezione non sono i tempi della televisione, quelli che a Clinton venivano spontanei e al suo avversario George Bush il vecchio erano estranei e irritanti, segnalati dai suoi sguardi impazienti all'orologio che lo distrussero in un dibattito.

Chi ha lunga esperienza di questi show sa che non sempre il più telegenico vince. Renzi ha provato la parte del "Little Kennedy", Bersani quella dello statista anziano contro il Gianburrasca. Questa potrebbe essere l'ultima volta in cui la forza della Sezione riesce a sconfiggere la forza del teleschermo o, in futuro, della Rete e rarissimamente i dibattiti spostano i risultati. Ma ieri sera ho visto sulla televisione italiana un pezzetto dell'America politica migliore, che non potrà più essere ignorato. Mezzo secolo troppo tardi, ma l'ho visto.

 

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