Con l'ideologia del punire e proibire non si vince

Dalla Rassegna stampa

Dal 1987, ogni anno il 26 giugno si celebra, per decisione dell’Onu, la giornata internazionale della lotta alla droga e al narcotraffico. Dall’inizio dello scorso secolo - la prima Convenzione sull’oppio venne firmata a L’Aja ne11912 e molte ne sono seguite fino ad oggi - la comunità internazionale ha progressivamente "universalizzato" il sistema di repressione del mercato delle droghe proibite. La war on drugs, non è mai stata in discussione e nel corso degli anni è andata rafforzandosi la cooperazione politica e l’integrazione funzionale tra i diversi paesi sul piano dell’attività di polizia e giudiziaria, per il raggiungimento dell’obiettivo di "un mondo senza droghe", come recitava il titolo (impegnativo) della dichiarazione solenne adottata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1998. In questa lunghissima guerra nessuno Stato ha ufficialmente disertato, e ben pochi hanno lesinato sforzi e risorse. Ha senso continuare a celebrare questa giornata, rinnovando l’impegno lodevole a liberare il mondo dalle droghe senza fare i conti con i costi e i risultati di questa politica? Penso che non abbia più senso e che sia quindi utile l’appello lanciato dal Partito radicale transnazionale e dall’associazione Luca Coscioni, perché le "celebrazioni" dogmatiche della giornata contro la droga siano sostituite da una discussione laica e informata, sulla base di dati certi. Per trarre il bilancio da decenni di guerra più volte dichiarata e altrettante volte perduta non serve condividere la tesi di chi, come me, ritiene che sia la proibizione, in sé, a determinare una rendita criminale e un formidabile incentivo economico alla diffusione delle droghe proibite.

È sufficiente prendere onestamente atto del fatto che "l’industrializzazione" del mercato della droga non è stata affatto arginata dall’istituzionalizzazione" di un ordine mondiale proibizionista. Molte sostanze psicoattive (si pensi alla cannabis, all’oppio e alle foglie di coca), storicamente legate a specifici contesti socio-culturali e geografici, sono divenute prodotti globali, diffondendo abitudini di consumo del tutto diverse da quelle tradizionali e di più grave impatto sociale e sanitario. Altre droghe si sono nel frattempo aggiunte (si pensi a quelle cosiddette chimiche o a quelle tradizionali potenziate, come nel caso della cannabis a più alto contenuto di Thc) invadendo un mercato estremamente capillare e diversificato e costringendo il legislatore a rincorrere, senza mai raggiungere, le evoluzioni dell’offerta criminale. La professoressa Carla Rossi, statistica dell’Università di Roma Tor Vergata, che da decenni analizza quantitativamente le politiche anti-droga e il loro impatto, riferisce che solo nel 2013 le nuove sostanze identificate da Europol sono state 81 e altre ve ne sono in commercio non ancora censite.

Un recente studio pubblicato dalla London School of Economics sugli aspetti economici della war on drugs, ha stimato in 300 miliardi di dollari il fatturato del mercato criminale in tutto in mondo (in Italia, per il Consiglio italiano per le Scienze sociali, i narcoprofitti erano nel 2011 di circa 24 miliardi di euro). Nella prefazione allo studio, intitolato esplicitamente Ending the Drug Wars, studiosi (tra cui i Premi Nobel per l’economia Arrow, Pissarides, Schelling, Vernon Smith e Williamson) e uomini politici e di governo (come Clegg, Kwasniewski e Solana) auspicano l’adozione di politiche fondate sulla riduzione del danno legato al consumo di droga e dell’impatto del mercato criminale, aprendo a forme, rigorosamente monitorate, di regolamentazione legale. Solo negli ultimi anni le istanze antiproibizioniste hanno iniziato a essere recepite sul piano legislativo.

È il caso dell’Uruguay, del Colorado e dello Stato di Washington dove è stato legalizzato l’uso cosiddetto ricreativo della cannabis. Non si può ancora parlare di un’inversione di tendenza, ma di una prima crepa nel muro eretto dalle Convenzioni sulla droga contro la sperimentazione di politiche alternative. L’errore o l’equivoco più comune sulle politiche sulla droga non proibizioniste riguarda la presunta neutralità, o perfino il favore, con cui i loro sostenitori guarderebbero al consumo delle droghe oggi proibite. Non è vero. Chi mette in discussione gli esiti delle politiche proibizioniste non mette in discussione i problemi (più o meno gravi) legati al consumo di droga, ma chiede di valutare e discutere i devastanti effetti collaterali (sociali, sanitari, economici e politici) connessi al mercato delle droghe proibite.

Il monopolio criminale delle droghe non è solo un potente moltiplicatore dei prezzi delle sostanze, ma anche dei rischi e dei danni legati alla loro diffusione. Il proibizionismo "droga" l’economia legale, il caporalato mafioso arruola molti consumatori (soprattutto tossicodipendenti, ma non solo) nella rete di vendita del free market illegale, i profitti criminali istituiscono (non solo in Sudamerica, purtroppo anche in Italia) delle vere e proprie narcocrazie politiche, che contendono allo Stato anche il controllo del territorio. La fiction Gomorra, apprezzata dalla critica e record di ascolti in Italia e all’estero, ha rappresentato con drammatica verosimiglianza la potenza dell’organizzazione narcocentrica della criminalità mafiosa. Quella antiproibizionista ambisce dunque a essere una strategia anti-droga e anti-mafia più efficiente e sostenibile sia sul piano economico che civile. Andrebbe certo testata, con gradualità, e verificata anch’essa nei suoi effetti, che al momento si possono solo presumere, ma non ancora affermare migliori (o meno peggiori) di quelli della war on drugs. In primo luogo, però, è necessario stabilire un principio di metodo: anche nelle politiche sulla droga, come in tutte le politiche, non si può invocare l’etica delle intenzioni per non far valere quella delle responsabilità e dei risultati.

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