Con gli immigrati torna il concetto di utilità del lavoro

Dalla Rassegna stampa

"24 ore senza di noi". La parola d'ordine della manifestazione degli immigrati del primo marzo non era una minaccia. E neppure, o non solo, la richiesta della cittadinanza e di diritti uguali a quelli dei cittadini italiani. Quello slogan sottolineava l'utilità del lavoro degli immigrati nella società italiana e, in generale, nelle società europee ed occidentali in cui una parte consistente dell`occupazione riguarda uomini e donne provenienti da altri paesi. La sottolineatura di quella utilità è di grande rilevanza. Non solo per chi ha avuto il coraggio di affermarla ma perché era diretta oltre che al governo alla società tutta, anche a coloro che soprattutto sono deputati ad ascoltarla: i sindacati e la sinistra.
Oggi, nella società della globalizzazione, il lavoro è ritenuto un fattore insignificante. Esso ha perso significato e pregnanza - paradossalmente - anche presso coloro che lo svolgono e che, pure in caso venga messo in discussione, lo difendono con tutta la forza della disperazione. Viviamo in una società che ricorda quella che Simone Weil descriveva con parole allarmate nel suo libro Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale, parole che, benché scritte nel lontano 1934, sembrano raccontare il presente. «Il lavoro - scriveva la filosofa - non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utili, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve, un posto».
Oggi la "coscienza orgogliosa di essere utili" non è più presente. Le lotte per la difesa del lavoro, le proteste simboliche, gli operai che salgono sui tetti, le manifestazioni dei lavoratori che non vogliono che si chiuda la loro fabbrica sono mosse da un sentimento forte di difesa del posto e dello stipendio - questioni rilevantissime e spesso tragiche - ma non dalla consapevolezza di
essere utili. Anche nel fondo dell'anima di questi lavoratori, che pure hanno lavorato per anni e sono disperati, vige la sensazione di difendere un dono, qualcosa che a loro fortunatamente è stato elargito. Lo stesso sentimento pare essere presente in coloro che quel lavoro dovrebbero rappresentarlo: le organizzazioni sindacali e la sinistra.
Per capire come questo senso di inutilità sia nato e si sia sviluppato, occorre guardare ai sommovimenti di questi anni: alla globalizzazione che ha spostato capitali, aziende, uomini, donne, sostenendo una continua intercambiabilità, eliminando ogni possibilità di scelta da parte dei soggetti del lavoro; al mercato, che si è esteso senza il rispetto per le regole minime; alla crisi economica che ha cancellato ogni idea di sviluppo e quindi di redistribuzione di risorse. In questa situazione in cui il lavoro è stato considerato "usa e getta", è quasi naturale che si sia persa ogni consapevolezza della sua utilità, e insieme che sia prevalsa una sensazione di sconforto.
Affermare, come hanno fatto gli immigrati il primo marzo, che il loro lavoro è utile significa rovesciare questa idea del privilegio e andare dritti al centro della questione che esso pone al nostro tempo. Perché questo messaggio viene da loro e non, ad esempio, dagli operai di Termini Imerese, che pure stanno conducendo una battaglia giusta e sacrosanta in difesa della loro fabbrica che dovrebbe essere chiusa proprio in seguito ai processi di internazionalizzazione della Fiat?
Perché loro sono l'espressione diretta, evidente e tangibile della nuova forza lavoro che i rivolgimenti del modo di produzione, la globalizzazione e la crisi economica hanno prodotto. Sono il nuovo soggetto di cui le aziende e il mercato mondiale hanno bisogno.
Questi necessitano per la propria sopravvivenza di lavoratori precari, disponibili a tutto, privi di diritti, in alcuni casi (Rosarno docet) ai limiti della schiavitù. Lavoratori che ripetano anche nell'occidente dei diritti e delle libertà la condizione di coloro che lavorano ai limiti della sopravvivenza nelle parti del globo dove èstata delocalizzata gran parte della produzione.
Ma nel momento in cui ne ha bisogno - e qui si riproduce la contraddizione originaria - quella globalizzazione li rende appunto utili, indispensabili alla sua stessa sopravvivenza. Ed essi si trasformano, si possono trasformare - la citazione è inevitabile - nei suoi becchini.
Siamo vicini ad una situazione di questo tipo? No, ne siamo lontani, molto lontani. Degli immigrati in Italia si parla o con accenti razzisti o con accenti solidaristici. O si chiede che se ne vadano - come se questo fosse anche pensabile - o che abbiano gli stessi diritti di cittadinanza.
Non si parla mai di quello che essi oggi rappresentano in un mondo del lavoro negletto e sconfortato. Non si prende in considerazione il messaggio inequivocabile di cui sono portatori.
E anche delle nuove prospettive che la loro presenza e la loro utilità può portare negli equilibri sociali. Non pare che di questo abbiano abbastanza consapevolezza né i sindacati che finora li hanno tenuti ai margini della loro iniziativa, né i partiti politici di sinistra che a parole mettono il lavoro al centro delle loro priorità. Eppure loro possono essere il soggetto di cambiamento di condizioni di lavoro e di sfruttamento e di precarietà insopportabili anche per molti cittadini italiani.

© 2010 Il Riformista. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK