Come riformare la legge elettorale

Vorrei ripartire da Benedetto Croce e Luigi Einaudi per intavolare una discussione sull'idea di una "costituente liberale e democratica", cioè di un "altro" terreno, che ho lanciato per uscire da questa fase di crisi politica e della politica. Non per restare fermi nel passato né per dissertare di filosofia e neppure per favorire nostalgie che non mi appartengono, ma per l'esigenza di domandare a me stesso e ai lettori de l'Opinione come o cosa possiamo fare ancora per tenere insieme la memoria e il futuro, il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà, il pensiero liberale e la democrazia. Questi, infatti, sono tutti binomi che si aprono alla conoscenza. Il direttore Arturo Diaconale ha scritto, la settimana scorsa, un articolo di fondo affrontando il tema della legge elettorale ed esprimendo un suo chiaro interrogativo sul modello "proporzionale". Sono d'accordo con lui. Bisognerà, però, approfondire la questione e comprendere davvero, in profondità, i rischi del sistema proporzionale.
Luigi Einaudi, da liberale, era solito ricordare che "l'unica garanzia di salvezza contro l'errore, contro il disastro, è la discussione". E non basta: nel suo intervento alla Consulta nazionale dell'11 febbraio 1946, Einaudi affermava: "Bisogna scegliere non la proporzionale, la quale manda in Parlamento macchine da voto, ma il Collegio piccolo, che manda un uomo invece di una macchina, scelto per la stima che si ha di lui. Costoro decideranno quali siano le idee meritevoli della vittoria". La Riforma della legge elettorale non è una questione tecnica, ma politica, democratica e liberale perché determina il funzionamento delle istituzioni e della politica stessa. Con un sistema elettorale non-democratico, come quello che abbiamo oggi in Italia, cioè con il "porcellum", si determina un Regime partitocratico, oligarchico, verticistico. Ormai, è chiaro, evidente, palese.
I Radicali di Marco Pannella lo vanno ripetendo dagli anni Settanta e non si stancano, non mollano, insistono. Perché la linea di confine tra il Vecchio Regime e un terreno "altro" su cui costruire il cambiamento passa attraverso la Riforma della legge elettorale in senso uninominale e maggioritario. Ma è giusto e necessario parlarne e discuterne, per capire meglio, per spiegare le ragioni di una visione liberale e democratica. "Conoscere per deliberare", asseriva Luigi Einaudi. E anche Croce, che insieme a Einaudi è l'altro caposaldo del liberalismo italiano del '900, ha posto la conoscenza al centro della sua indagine filosofica. Immanuel Kant, filosofo illuminista e pensatore liberale, affermava: "Agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale". Questa è, a mio parere, la Politica, intesa con la P maiuscola, cioè la Politica vissuta come l'arte del "nuovo possibile". Siamo sempre, come appare evidente, nel campo della conoscenza rispetto a quello che possiamo considerare il controcampo "ignorante" del Potere. Sia esso Potere dittatoriale, assolutista, coercitivo, liberticida, totalitario o fine a se stesso. Non ci siamo discostati, perciò, dal tema centrale della conoscenza, che si esercita innanzitutto attraverso la "circolazione delle idee".
È anche per questa ragione che continuo a definire la Politica come l'arte del "nuovo possibile", in alternativa al "vecchio probabile" del Potere. Croce, difatti, individua i caratteri costitutivi dell'arte nel fatto di essere "conoscenza intuitiva", inscindibile dall'espressione. Non che l'arte debba materializzarsi per forza in una estrinsecazione pratica. È forse proprio da questo presupposto crociano che, da almeno dieci anni, ho sviluppato una seria critica al "pragmatismo" divenuto ideologia. La cosiddetta "forza dei fatti", sbandierata ai quattro venti, in realtà, ha mostrato tutta la sua inconcludente astrattezza e una assoluta incapacità a governare gli eventi. Perché i "fatti", privati di un pensiero e di un progetto politico, costituiscono una falsa e dannosa ideologia basata non sulla concretezza delle idee, non sulla "teoria della prassi", non su quella che Benedetto Croce chiama "forma dello Spirito teoretico", cioè sull'arte, ma sul pragmatismo oppure sull'affarismo, dove regnano il vuoto di pensiero e dove non vi è più spazio per le idee, per la discussione, per il contraddittorio, per la poesia, per il dialogo e, anzi, tutto questo viene rimosso o soffocato per ostacolare quella che è davvero la forza che muove il mondo: la forza delle idee. Siamo o non siamo, attraverso questo ragionamento, nel terreno della Politica? Siamo o non siamo dentro quella "conoscenza intuitiva", che è inscindibile dall'espressione? Quando Croce parla di "espressione", però, va specificato, lo fa intendendo l'arte come qualcosa che necessita comunque di un'attività conoscitiva. Perché la conoscenza ha due forme: è conoscenza intuitiva o conoscenza logica, conoscenza per la fantasia o conoscenza per l'intelletto, conoscenza dell'individuale o conoscenza dell'universale, delle cose singole o delle loro relazioni. In altri termini, don Benedetto riteneva che la conoscenza o è produttrice di immagini o è produttrice di concetti. Per questo motivo, considerava l'arte come visione-espressione di un'immagine contemplata per sé, senza doversi porre per forza il problema di dover determinare la natura della realtà di cui è espressione. L'arte non è, quindi, una conoscenza concettuale, non è un atto utilitario né un atto morale.
In questo senso, perciò, secondo la mia personale elaborazione, (Croce mi perdoni!) c'è un'arte intesa come "intuizione pura" e un'altra arte, cioè quella della Politica, intesa anche come conoscenza concettuale e atto morale. Ciò che conferisce significato all'intuizione artistica è il sentimento, diceva Croce, inteso in senso trasfigurato, cioè come pura forma, pura immagine, pura espressione. E affermava: "L'intuizione è cieca", e questa è l'arte pura. Per poi aggiungere: "L'intelletto le presta gli occhi", e questa è la Politica.
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