«Colpiscono lei per colpire me». Reso pubblico il carteggio con D’Ambrosio

«Atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato, che ha fatto onore all’amministrazione della giustizia del nostro paese». Era il 26 luglio di quest’anno e Giorgio Napolitano, in partenza per Londra per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, aveva appena saputo che il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, da settimane sotto attacco del Fatto quotidiano a proposito delle indagini sulla presunta trattativa stato-mafia, era morto all’improvviso colpito da arresto cardiaco in una strada di Roma.
Il dolore e l’ira erano evidenti nelle parole che il presidente aveva scritto di suo pugno per comunicare al paese il grave lutto che lo aveva colpito come uomo e come capo dello stato. Così com’era evidente il sospetto che i problemi di cuore di cui il magistrato soffriva fossero stati acuiti da uno stress prolungato e da un’esposizione mediatica inconsueta e del tutto indesiderata.
A distanza di tre mesi da quell’evento drammatico, Giorgio Napolitano ha scelto l’occasione dell’apertura dei corsi della Scuola superiore di magistratura a Scandicci per rendere nota la corrispondenza intercorsa con il suo consigliere in quei giorni difficili. Il volume distribuito ieri, che raccoglie tutti gli interventi del presidente sui temi della giustizia, dal 2006 al 2012, è dedicato alla memoria di Loris D’Ambrosio, del quale Napolitano ricorda nella prefazione «la somma competenza, serietà, discrezione». Scrive il presidente: «Nessuna delle pagine che seguono è stata da me concepita e definita senza essere a lungo discussa e ponderata, punto per punto, con Loris D’Ambrosio».
Nelle due lettere pubblicate nel volume c’è tutta l’amarezza e la fatica di entrambi. La prima missiva è del 18 giugno. Il consigliere scrive al suo presidente. È preoccupato soprattutto che «la malevola interpretazione» dei fatti stia cercando di spostare sulla figura e sull’«altissimo ruolo istituzionale» di Napolitano «condotte che soltanto a me sono invece riferibili». Tre pagine nelle quali D’Ambrosio difende la correttezza del suo operato, scrive di non aver «mai esercitato pressioni o ingerenze che anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze», cita frasi tratte da un articolo di Marco Travaglio che considera «calunniose», parla delle intercettazioni che lo riguardano: «Non conosco il contenuto delle conversazioni intercettate, ma quel tanto che finora è stato fatto emergere serve a far capire che d’ora in avanti ogni più innocente espressione sarà interpretata con cattiveria e inquietante malvagità». Ricorda il suo passato di magistrato accanto a Giovanni Falcone, l’impegno nella definizione di norme anti-mafia, spiega che quanto sta accadendo «non è sopportabile». Certo di essere compreso dal presidente, D’Ambrosio rimette «il prestigioso incarico di cui ha voluto onorarmi, dimostrandomi affetto e stima».
La risposta di Napolitano porta la data del giorno dopo. Al suo consigliere il presidente riconferma quell’affetto e quella stima che «restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me». È quasi paterno, il capo dello stato, quando dice di comprendere lo stato d’animo del suo collaboratore e prevede che ci saranno altri «tentativi» di colpirli, ma «li fronteggeremo insieme – assicura – come abbiamo fatto negli ultimi giorni. E la sua vicinanza e collaborazione resterà per me preziosa fino alla conclusione del mio mandato». Il cuore affaticato di D’Ambrosio si è fermato prima.
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