Cinque anni fa moriva Welby E con lui la politica

Cinque anni fa moriva Piergiorgio Welby. E con lui moriva la politica: rinchiusa in un Palazzo che rassomiglia sempre più a una cripta invece che a una agorà, è rimasta nuda di fronte alla propria incapacità di dare risposte alla società. Era la notte tra il 20 e il 21 dicembre del 2006 quando a Welby fu staccato il respiratore. Fu, quella, la prima di una lunga serie di sconfitte per il Parlamento.
Era il 2006, appunto. Sono cambiate molte cose da allora, è cambiata la stessa geografia politica; ciò che non è cambiato, però, è la sostanza. Il traccheggiare incerto del Parlamento attorno ai temi più delicati, come la bioetica, lo testimonia. All'epoca, in commissione Sanità al Senato andava in scena uno spettacolo che avrebbe dovuto mettere in guardia su cosa sarebbe stato il futuro Pd. Ds e Margherita si facevano la guerra sul testamento biologico, e avrebbero continuato così ancora per mesi. Avevano la maggioranza, erano alleati, ma di quella legge non se ne fece nulla. Poi, fu anche peggio. E dire che gli inviti alla serietà non erano mancati. Tra tutti, quello di Giorgio Napolitano al quale Welby aveva scritto invocando una vita dignitosa. «Io amo la vita», scrisse; e spiegò: «Morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti». Napolitano raccolse il messaggio. «Esso - scrisse il Presidente della Repubblica - può rappresentare un'occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l'elusione di ogni responsabile chiarimento». Poche settimane dopo, Welby mori.
La sera del 20 dicembre prima di cena diede ancora un'ultima occhiata alla posta elettronica. Poi, un disco di Bob Dylan. «Lui era sereno», raccontò su queste pagine sua moglie, Mina. «Se ne è andato così. Io gli tenevo la mano, gli sono stata accanto fino all'ultimo battito. Fu sedato e contemporaneamente staccato dal respiratore mentre già andava addormentandosi. Poco prima gli avevo chiesto se era proprio sicuro. Lui disse soltanto: sì». Amava la vita, Welby, ma era consapevole della propria condizione. Inchiodato in un letto, imprigionato nel suo corpo dalla distrofia muscolare progressiva, ormai respirava soltanto perché era attaccato a un respiratore. E non poteva più muoversi. Non c'era speranza di migliorare. Porre fine a quella condizione dolorosa era una possibilità dignitosa. Fu la sua scelta. Era parte di una battaglia politica. La politica, però, tradì quella battaglia e le speranze di Napolitano. Gli anni successivi non furono neppure gli anni del silenzio: furono quelli della elusione. In quella legislatura non se ne fece nulla del testamento biologico. Poi, fu anche peggio.
Nacque il Pd; e poi il Pdl. E morì Eluana Englaro. E la politica morì una volta ancora. Il corpo dei malati divenne terreno sul quale i partiti presenti in Parlamento misurarono tattiche di piccolo cabotaggio. Le Camere, poi, diedero vita a una corsa contro il tempo e contro il corpo di quella donna già morta da anni e che era ormai soltanto un simulacro della vita che fu. Inutili gli appelli del padre Beppino. Ad ascoltarlo furono soltanto i giudici, i quali applicano la legge. La politica, allora, si scatenò su quel fronte. Il Parlamento, su iniziativa del Pdl, trascinò la Cassazione in un rovinoso conflitto tra poteri dello Stato di fronte alla Corte Costituzionale, nell'arrogante pretesa di impedire ai giudici di applicare la legge, considerando ciò una invasione di campo seppure, allo stesso tempo, continuava a non decidere nulla. Alla fine, rimediò uno schiaffò dalla Consulta.
La smorfia di quel senatore del Pdl che, la sera che arrivò la notizia della morte di Eluana, concluse il suo intervento in aula con un gesto di stizza, non si può dimenticare: era il volto rabbioso della sconfitta. E sembrava contenere una minaccia. Era il 9 febbraio del 2009. Sono passati anni, ma neppure quella minaccia il Parlamento è riuscito a mettere in pratica; soltanto il tentativo di approvare una legge discutibile che fa la spola tra Camera e Senato. «Ma io - dice oggi Mina Welby - spero che questa legge rimanga nei cassetti e che ne venga proposta una come si deve». Nel frattempo la politica si è dissolta, sostituita dai tecnici. Ma è inutile cercare il colpevole della sua morte: non è omicidio, è un chiaro caso di eutanasia.
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