Per le cinesi non è mai festa

Il centesimo otto marzo dedicato alle donne avrebbe potuto essere una buona occasione perché le Nazioni Unite e le sue inutili commissioni dedicate alla condizione femminile ricordassero i trattamenti subiti dalle cinesi in nome della politica del figlio unico: aborti forzati fino al nono mese, visite periodiche obbligatorie per verificare che non ci siano gravidanze in corso e non siano stati rimossi gli strumenti anticoncezionali, punizioni personali e familiari per chi trasgredisce, compresa la perdita del posto e la prigione. Lunedì scorso, a Washington, il deputato americano Chris Smith e alcuni dissidenti cinesi in esilio, tra i quali Harry Wu (l'attivista per i diritti umani che ha passato diciannove anni nei campi di concentramento maoisti), hanno denunciato la politica di complicità dell'Unpfa - l'agenzia Onu che si occupa di demografia - con le pratiche di controllo coercitivo della popolazione cinese, che portano all'aborto quasi sistematico delle bambine. Fu un segretario dell'Onu, Pérez de Cuellar, a premiare nel 1983 il ministro per la Pianificazione familiare cinese, e ancora oggi l'Unpfa - lautamente rifinanziata dall'Amministrazione Obama - accredita la "volontarietà" di misure odiose in realtà imposte con la forza. "Il governo continua a privare i cittadini del diritto di riprodursi denuncia un altro attivista, Wang Songlian - e le donne devono chiedere un 'permesso di nascita'. Quando hanno raggiunto la propria quota, vengono 'persuase' dai rappresentanti comunisti a inserirsi degli Iud o a essere sterilizzate", mentre altre sono costrette all'aborto. In un solo paese le donne si suicidano più degli uomini. Indovinate quale.
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