Cina, la rivolta in nome dell’ambiente

Dalla Rassegna stampa

La protesta è cominciata domenica: centinaia, poi migliaia di abitanti di Maoming, città della ricca provincia meridionale del Guangdong, sono scesi in strada per contestare la costruzione di una fabbrica petrolchimica per il paraxilene (PX), sostanza che serve alla produzione di bottiglie di plastica e tessuti in poliestere. La gente ha paura per le ricadute inquinanti. Le manifestazioni sono proseguite per giorni e le autorità locali hanno reagito con la forza: cariche di polizia e manganellate. Sul web sono circolate foto di auto bruciate, gente insanguinata e qualcuno sostiene che ci sono stati quattro morti: non ci sono verifiche indipendenti su quelle immagini. L’amministrazione di Maoming ha smentito, si è detta sdegnata per le voci «false e destabilizzanti». «Mantenere la stabilità», che in cinese si dice «weiwen», è un’espressione chiave nella politica e nella gestione dell’economia a Pechino. Per cercare di placare la piazza, le autorità di Maoming hanno promesso che la fabbrica non sarà costruita prima di aver convinto gli abitanti (circa 700 mila) della sua utilità e della non pericolosità. Una linea seguita da altri governi locali a partire dal 2009, quando a Xiamen nella provincia sudorientale del Fujian la protesta popolare bloccò una prima fabbrica di PX.

Notizie come questa corrono su Internet, nonostante la censura: dal 2009 il movimento «no paraxilene» si è mobilitato a Dalian, Shifang, Nantong, Ningbo, Kunming. A luglio dell’anno scorso, ancora nel Guangdong, è bastato che un migliaio di cittadini scendesse in strada contro un impianto per l’arricchimento di uranio e il partito comunista ha ceduto. Eppure si trattava di un progetto da cinque miliardi di dollari, strategico perché avrebbe dovuto fornire di uranio metà delle centrali nucleari della Cina. Di fronte alle paure ambientali dei cinesi, per mantenere la stabilità, il governo è disposto a volte ad arretrare. Il premier Li Keqiang ha dichiarato «guerra all’inquinamento». Ma il caso di Maoming non è chiuso. La protesta si è allargata a Guangzhou (la grande Canton): quelli di Maoming hanno creato una rete di solidarietà attraverso QQ un sistema di chat su Internet e telefonini. Anche a Guangzhou manganellate e almeno nove arresti. Qualcuno sui social media ha diffuso voci sull’arrivo di carri armati in città: nuova smentita delle autorità, che hanno anche rilasciato gli arrestati con insolita rapidità. Però questa volta a Pechino non vogliono cedere, perché da qualche parte la fabbrica va costruita. Il Global Times, giornale controllato dal gruppo del Quotidiano del Popolo, ha scritto in un editoriale che il PX è un elemento base importante per l’industria nazionale e che impianti in Giappone e Corea del Sud lo producono e lo esportano in Cina con grande vantaggio commerciale. Il giornale sostiene che il progetto di Maoming è ragionevole e conclude: «Bisogna spezzare il circolo vizioso instaurato da una minoranza contro la produzione del paraxilene».

La Cina è il primo consumatore al mondo della sostanza: 16 milioni di tonnellate nel 2013, per oltre la metà importata. L’impianto di Maoming è citato nel piano quinquennale (2011-2015) di sviluppo economico: dovrebbe produrre 600 mila tonnellate l’anno di PX. I giornali cercano di rassicurare la popolazione del Guangdong scrivendo che i rischi di inquinamento non vengono tanto dalla produzione, ma dallo stoccaggio e dal trasporto. Sinopec, il gigante petrolifero statale, promette di far vedere ai cittadini di Maoming il processo produttivo e i suoi 16 impianti già in funzione. Tutte queste spiegazioni, i titoli sui giornali, dimostrano che il governo è allarmato: che succederebbe se invece di protestare per una fabbrica in una città relativamente piccola come Maoming la gente cominciasse a scendere in piazza in tutta la Cina, per reclamare il sacrosanto diritto ad avere aria pulita, a non vivere per metà dell’anno in media sotto una cappa di smog irrespirabile?

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