A chi fa paura un esecutivo forte

C’è la tenue possibilità, come ha osservato Sergio Romano (il Corriere, 1˚novembre) che l’elezione di Pier Luigi Bersani a segretario del Partito democratico contribuisca a rendere meno irrespirabile l’aria del Paese. C’è l’interesse del governo ad evitare, per il futuro, continui scontri frontali con l’opposizione: la sponsorizzazione della candidatura di Massimo D’Alema alla carica di responsabile della politica estera della Unione europea è una mossa che va in quella direzione.
Ma c’è anche un interesse di Bersani a superare il clima da guerra civile. Bersani, la cui tradizione politica di provenienza teneva in gran conto il realismo, sa bene che quel clima può favorire solo gli estremisti. Alla lunga, la «politica delle urla» danneggia le forze moderate di sinistra. Si tratta di una possibilità tenue. I «combattenti della guerra civile» non molleranno l’osso, hanno troppo da perdere. Se ci sarà, su certi temi, dialogo fra maggioranza e opposizione, si può scommettere che Bersani verrà accusato dai suddetti combattenti di essere un traditore.
Ma Bersani si gioca il futuro del Pd. Sa che deve dare del suo partito l’immagine di una «forza tranquilla », capace di occuparsi con serietà dei problemi del Paese. Solo così può sperare di attrarre, nel Nord d’Italia soprattutto, quella parte di elettorato che oggi non lo voterebbe ma che potrebbe domani cambiare idea, che potrebbe abbandonare il centrodestra se il Partito democratico fosse capace di costruirsi una reputazione di seria e dinamica forza riformista.
Per qualificare così il proprio partito Bersani deve cercare il dialogo con la maggioranza là dove più accentuato è l’attivismo riformista del governo. Lavoro, scuola- università, pubblica amministrazione sono àmbiti nei quali il governo, comunque si giudichi la sua azione, ha mostrato una forte caratura riformista. Che deve fare l’opposizione? Continuare a dire che «è tutto sbagliato, è tutto da rifare», oppure tentare di dialogare apertamente col governo cercando reali punti di incontro per poi poter rivendicare una parte del merito dei provvedimenti adottati?
Se sui temi suddetti, e anche su altri (per esempio, le questioni degli sgravi fiscali alle imprese o della potatura della spesa improduttiva) il Pd fosse capace di presentarsi con proposte costruttive verrebbe certo accusato di intelligenza col nemico dai guerrafondai ma potrebbe guadagnare credibilità agli occhi dell’elettorato più centrista.
C’è poi il capitolo delle riforme istituzionali. Qui il terreno però è decisamente minato. Capire dove sono collocate le mine è importante. Sulla riforma della giustizia, nonostante l’opera, comunque preziosa, di pontieri di prestigio come Luciano Violante, le possibilità di azione bipartisan sembrano, al momento, scarse o nulle. È improbabile che il governo presenti un progetto di riforma che possa ottenere l’avallo della Associazione nazionale magistrati. E senza quell’avallo è difficile che il Pd sia in grado di accordarsi col governo.
Probabilmente, la questione della riforma della Costituzione (tranne negli aspetti che toccano il tema della giustizia) diventerà, di nuovo, come tante altre volte in passato, un terreno di seria discussione fra maggioranza e opposizione.
Le fondazioni che fanno capo a Gianfranco Fini e a Massimo D’Alema ci lavorano su da qualche tempo. E Violante ha ricordato i punti su cui, in Parlamento, è forse possibile trovare una intesa: «Trasformare il Senato in Camera delle Regioni, lasciare a Montecitorio la legislazione ordinaria e il potere di dare e togliere la fiducia, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare i poteri del presidente del Consiglio » ( Il Foglio , 31 ottobre).
Pur auspicando che un’intesa si trovi, mi permetto di essere scettico. A meno che non cambino certe condizioni. Di riforma della Costituzione si parla dai tempi di Craxi e sono sempre falliti tutti i tentativi di farla. Le responsabilità di questi ripetuti fallimenti non sono solo della classe politica. Sono anche di quelle forze, esterne alla classe politica in senso stretto, che hanno il potere di legittimare oppure di delegittimare l’operazione di riforma. Penso, in particolare, ai professori di diritto costituzionale. Fin quando la maggioranza dei costituzionalisti, come fino ad oggi è stato, manterrà un atteggiamento conservatore, le possibilità di cambiamento consensuale della Costituzione continueranno ad essere ridotte. Immaginiamo che si trovi un accordo sui punti indicati da Violante, ivi compreso il più controverso: il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Non ci sarebbe immediatamente una straordinaria mobilitazione di costituzionalisti di prestigio contro la «deriva autoritaria», contro il «fascismo alle porte»? E quella mobilitazione, sfruttata dalle forze politiche e dai giornali contrari all’accordo, non avrebbe un potente effetto delegittimante sull’intera operazione? Così è stato in passato. Perché le cose dovrebbero oggi cambiare?
In una eccellente ricostruzione- analisi della vicenda che apparirà sul numero di novembre di Le nuove ragioni del socialismo (e la cui lettura consiglio a quei politici, di maggioranza e di opposizione, che vogliano seriamente imbarcarsi nell’impresa), Augusto Barbera mostra benissimo quanto il provincialismo, l’incapacità di confrontarsi con le esperienze costituzionali europee – britannica, spagnola, tedesca – pesi sui pregiudizi, non solo dei politici, ma anche di molti costituzionalisti. Fare le riforme costituzionali non è solo una questione affidata alle possibilità di accordo fra maggioranza e opposizione. È anche una questione di aggregazione di consenso fra coloro che sono ritenuti competenti e legittimati a dire la loro sull’argomento.
Convincere la cultura costituzionalista del Paese che la democrazia richiede governi istituzionalmente forti è un lavoraccio: troppi costituzionalisti pensano ancora il contrario. Ma è un lavoraccio necessario, se si vuole arrivare a risultati. Altrimenti, la ripresa del dialogo sulle riforme costituzionali sarà solo, come altre volte, una scusa per instaurare, per qualche mese, un clima meno avvelenato fra le forze politiche. Meglio di niente. Ma troppo poco, forse, per le esigenze del Paese.
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