Centrodestra, l’eredità difficile

Dalla Rassegna stampa

Ci sono molti aspetti sorprendenti della caduta - stavolta, pare, definitiva - di Berlusconi. Il primo è che fino a ieri diceva il contrario, voleva restare in campo per fondare un nuovo partito, con le sue Amazzoni o con il marchio originario di Forza Italia. Il secondo è che voleva sciogliere il Pdl, e invece dal Pdl è stato sciolto. Il terzo è che non ha indicato un successore, e per trovarlo anche il centrodestra andrà alle primarie, il 16 dicembre.

 

Questi tre fattori messi insieme dicono che il vecchio Silvio non è caduto da padre-padrone, come si era abituati a conoscerlo. Ma, più o meno, come uno dei tanti leader che prima o poi si ritrovano in minoranza, e a cui il vertice del partito fa sentire i rintocchi della fine.

Una conclusione così normale, così banalmente politica, era assolutamente imprevedibile per l’uomo che aveva guidato la rivoluzione della Seconda Repubblica, anche se da un anno almeno il Cavaliere girava a vuoto, sommando sconfitte su sconfitte, e il disastroso punto d’arrivo del suo ventennio era ormai sotto gli occhi di tutti. Basta solo paragonare la situazione attuale a quella del ’93, senza pretese di bilanci storici che certo richiederanno più approfondimento, e guardandosi anche dal caricare tutte le responsabilità del fallimento sul Cavaliere.

 

La corruzione, che fu alla base del crollo della Prima Repubblica, è oggi, se possibile, peggiorata. Se non altro, allora c’erano ragionevoli dubbi che una parte dei proventi delle tangenti pagate dai privati servissero al finanziamento occulto della politica. Ora è il contrario: i soldi pubblici, che lo Stato versa ai partiti e ai gruppi parlamentari e regionali, finiscono nelle tasche degli eletti, che li adoperano per i più disparati usi personali.

Le riforme, che furono la bandiera, non solo del Berlusconi vincente del ’94, ma anche dei suoi avversari che lo sostituirono al governo nel ’96 e nel 2006, sono rimaste in questi decenni, durante ben cinque legislature, una vuota declamazione e un’ennesima occasione di scontro. Le rare volte che si è riusciti, in fretta e per esigenze elettorali, ad approvarne qualcuna - federalismo e revisione costituzionale del centrodestra, decentramento e nuovo Titolo Quinto del centrosinistra - le conseguenze sono state tali da far rimpiangere subito l’antico testo della Costituzione.

 

A ben vedere anche il bipolarismo, l’apertura del gioco politico a tutto campo e la piena legittimazione di tutte le forze politiche - questo sì, un merito che a Berlusconi va riconosciuto - ora sta per essere cancellato, da una riforma elettorale che, in un modo o nell’altro, vuol riproporre il vecchio impianto proporzionale della Prima Repubblica e il sistema partitocratico che aveva nel Parlamento il laboratorio di ogni alchimia.

 

Sembra impossibile che questo possa essere davvero lo sbocco di un ventennio così tormentato. E che lo diventi proprio nel momento in cui i due maggiori partiti, consapevoli delle loro crisi - pur diverse, nella genesi e nell’entità - affidano ai rispettivi elettori il responso sul loro futuro. Se è finita o deve finire l’epoca del populismo e del plebiscitarismo, incarnata principalmente da Berlusconi, non si capisce perché leader aspiranti o sopravvissuti cerchino ancora la rilegittimazione nei gazebo. Se invece credono che solo il lavacro dell’opinione pubblica, prima ancora che il voto popolare vero e proprio, possa renderli di nuovo credibili, forse dovrebbero rivolgersi ai cittadini con maggiore sincerità. E con argomenti più convincenti, che non facce, storie familiari e promesse destinate purtroppo a essere smentite dai fatti.

 

Ma per tornare al centrodestra, terremotato, prima dal declino di Berlusconi, e adesso dal suo repentino addio, non è detto che riesca a ritrovare così presto un nuovo equilibrio. L’ipotesi che, uscito il Cavaliere, tutti i pezzi sparsi si ricompongano miracolosamente, varrà - se varrà - per il Pdl, che con le primarie potrà designare, finalmente in modo democratico, il successore del Cavaliere (Alfano è il candidato che parte più forte). Se invece, come sembra, e come ha riproposto di recente il presidente del Senato Schifani, l’obiettivo è di ricomporre la coalizione, da Casini a Storace, che ha sempre vinto le elezioni quando s’è presentata unita, il cammino sicuramente sarà più lungo.

 

I centristi infatti non hanno molta intenzione di farsi riattirare nel meccanismo dei due schieramenti alternativi, che si contendono la guida del Paese non riuscendo poi a governarlo. In questo senso, l’uscita dalla prima linea di Berlusconi fa chiarezza, ma non basta. E la partita torna al punto di partenza: dove deve andare l’Italia? Avanti o indietro? Verso che tipo di repubblica e democrazia? Con più o meno Europa?

Serietà vorrebbe, visto il pesante bilancio degli ultimi anni, che interrogativi del genere fossero affrontati con l’impegno, le riflessioni e la pacatezza che richiedono. E senza l’ansia di riconnetterli per forza alla corsa per la conquista, o la riconquista, del governo. Che per fortuna - speriamo ancora per un po’ di tempo - può restare nelle salde mani di Monti.

 

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