Cento egiziani d'Italia nelle piazze del Cairo «Ora siamo in pericolo»

Dalla Rassegna stampa

MILANO - Adesso è meglio non attirare l’attenzione. «Sto cercando di limitare gli spostamenti - racconta Omar Abdel Aziz -. Sono in casa da una zia. Spero di tornare presto tutto intero». La sera, soprattutto, quando cala il buio «si sente tensione, perché gli arresti avvengono dì notte». Come lui, Sara Said è preoccupata: «Ora c’è una rappresaglia contro i sostenitori di Morsi: siamo in vero pericolo qua». Al Cairo s’è sparsa la voce che i militari stiano cercando ragazzi come loro, egiziani residenti all’estero o con passaporto straniero, in questo caso italiano, accusati di aver attraversato il Mediterraneo per fomentare la rivolta. Alla Farnesina non risulta nessun connazionale in stato di fermo. Ma i giovani non si sentono tranquilli, si son fatti notare, hanno parlato dal palco a piazza Rabaa. Perché siete partiti? Omar: «Apposta per capire cosa accade nel Paese». Sara: «Sono scesa al Cairo per passare le vacanze, come quasi ogni estate». La pausa dei corsi all’università, il mese sacro del Ramadan, il legame con il Paese dei genitori, dei nonni, dei cugini che già nei mesi scorsi su Facebook e via Skype raccontavano delle manifestazioni, del colpo di Stato militare e poi dei sostenitori del presidente deposto, Mohamed Morsi, di nuovo in piazza.

Migliaia di egiziani anche in Italia hanno seguito le ultime vicende incollati a Internet e alle tv satellitari, a volte con gli striscioni in corteo. I Giovani Musulmani più degli altri. Costituiscono una formazione eterogenea, per provenienza e credo, ma molti degli associati sentono un legame forte coi Fratelli Musulmani, che in decenni di clandestinità si sono retti anche sul sostegno della diaspora. Dopo i rivolgimenti del 3 luglio, allora, quando sono riprese le proteste, alcuni ragazzi italo-egiziani hanno deciso di partecipare. Sono partiti in cento, circa, almeno venti da Milano. Con lo spirito di un campo-scuola, che ha preso, però, una piega imprevista e tragica. Omar ha 25 anni, vive in un paesino della Brianza, papà laico e sindacalista, mamma autista del pullmino scolastico, studia Storia alla Statale di Milano e vorrebbe fare il giornalista: motivo in più per andare a vedere. Il 26 luglio, racconta, «sono sceso in una manifestazione antimilitari. A un certo punto uomini in abiti civili, un centinaio di persone, hanno attaccato i manifestanti con bottiglie incendiarie, colpi d’arma da fuoco, sassi. Tutti ci siamo messi a correre, perché ci inseguivano...». Anche Sara non s’aspettava quella violenza. Studentessa di Farmacia, 21 anni, è partita da Roma e si è ritrovata negli scontri di piazza Rabaa. «Erano tutti tranquilli, dicevano "non ci faranno mai niente". Alla fine sono stati attaccati brutalmente bambini, uomini e donne. Vedevo gente ferita al petto. Era orrendo. Poi ho partecipato alla manifestazione a piazza Ramses con mia madre. Il terrore totale: delinquenti sparavano dai vicoli, la polizia dagli elicotteri, cecchini dagli edifici...». Il fratello di Omar, Ahmed Abdel Aziz, portavoce del Comitato libertà e democrazia per l’Egitto, ieri pomeriggio era a Roma, in un sit-in davanti alla Farnesina per ottenere un incontro con il ministro Emma Bonino. L’appello ufficiale: «L’Italia sia capofila nel chiedere la fine del massacro». Ma nei prossimi contatti politici verrà posta anche la questione dei giovani connazionali «nascosti» al Cairo.

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