La cattura (a orologeria) del «macellaio di Srebrenica»

Dalla Rassegna stampa

«Abbiamo chiuso un capitolo difficile della nostra storia e ripulito dalla sporcizia il volto della Serbia e quello dei serbi in ogni parte del mondo». Il presidente Boris Tadic è trionfante.

All'alba di ieri, in un paesino a un centinaio di km da Belgrado, verso il confine con la Romania, il suo «A team» di poliziotti, forze speciali e 007 militari, ha catturato il generale Ratko Mladic, il boia di Sarajevo, il macellaio di Srebrenica. È la nuova idea di Serbia che adesso può davvero vincere, l'idea di un paese che non vuole più essere «grande» o militarista, ma che in cambio può entrare in Europa. Per il governo di Belgrado Ratko Mladic era un assegno circolare da incassare allo sportello dell'unione europea. La cattura dell'uomo che si era fatto beffe dell'Onu aveva coperto di vergogna i caschi blu olandesi, e ridicolizzato il potere molle dell'Europa era l'ultima fondamentale richiesta di Bruxelles per avviare il percorso di avvicinamento che in tre anni potrebbe portare Belgrado nell'Unione.

Ma, con la cattura del macellaio Mladic, 69 anni, il veto cade. Tadic ha ragione ad esultare, la Serbia è così cambiata che Ratko Mladic era rimasto senza protezioni e complicità. Solo sulla famiglia sul legame di sangue poteva contare. Dopo 16 anni da ricercato internazionale era un vecchio alla deriva della storia, solo, abbandonato dai suoi miliziani nazionalisti spietati e sanguinari, senza i suoi presidenti a proteggerlo (almeno tre: Karadzic, Milosevic, e Kostunica) senza i suoi cannoni, senza i bulldozer a coprire la vergogna della fosse comuni. Pallido, malato, con un braccio paralizzato da un ictus. A casa di un cugino, il generale della pulizia etnica aveva due pistole che ha neppure provato ad adoperare. Ratko Mladic si nascondeva in una casa perquisita più volte nei sei anni di latitanza. Ora nel paesino di Lazarevo saranno 100,150 contadini nazionalisti, giovanotti muscolosi, dai capelli biondi rasati, poveri alle cinque del pomeriggio già agitati dalla birra che sventolano bandiere serbe, russe e quelle nere con il teschio dei pirati simbolo della guerriglia estremista.

I giovani tardivi sostenitori del generale assassino si rifiutano di credere ad un arresto frutto di un tradimento. «Non è possibile che sia stato preso qui», gli vogliono far capire che nessuno degli abitanti di Lazarevo, serbi emigrati in questa pianura fertile la seconda guerra mondiale o dopo le guerre della frantumazione jugoslava degli anni novanta, avrebbe mai tradito il loro generale il loro eroe. Neppure per i cinque milioni di dollari o per i dieci milioni di dollari della taglia del governo democratico di Belgrado.

Le cancellerie di tutto il mondo hanno appunto spalleggiato il presidente Tadic. «Ora la strada per la Serbia è aperta» ha detto anche il ministro degli esteri italiano Franco Frattini. Catherine Ashton, la capa della diplomazia europea ieri a Belgrado, confida che «Radic verrà estradato per essere processato dal tribunale penale internazionale entro 9-10 giorni. Così mi hanno assicurato a Belgrado».

Le cose però potrebbero non andare così lisce. Le macchie che l'arresto del generale dovrebbero ripulire sono sotto, non sopra, la pelle della Serbia. Il partito radicale serbo parla "il momento tra i peggiori della nostra storia". Il movimento di estrema destra "1389" (in onore di una battaglia medioevale contro i mussulmani invasori) grida al "tradimento". La Serbia è divisa. Ma l'ultimo suo eroe, dopo l'uscita di scena del presidente Slobodan Milosevic morto in cella all'Aia e del presidente della repubblica serba di Bosnia Radovan Karadzic catturato nel 2008 in autobus di Belgrado travestito da guru new-age era l'ultimo loro eroe. Radic è apparso in serata in un tribunale di Belgrado per un udienza preliminare sui crimini di guerra commessi. È apparso fragile, malato, malfermo sulle gambe tanto che il giudice si è riservato di chiedere la perizia medica per sapere se potrà sostenere il giudizio. "Buonasera a tutti ha detto il boia dei balcani l'ennesimo suo atto di sfida era nel documento che teneva in tasca da latitante: Milrad Komadic. Quasi un anagramma del suo vero nome forse confidava troppo nella rete di protezione che la follia nazionalista gli aveva costruito attorno in tutti questi anni.

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