Le cattive lezioni di indignazione

È diffusa la cattiva abitudine, in Italia, di storpiare il significato di un articolo con il quale si è, legittimamente, in dissenso. Se si scrive: bisogna difendere il diritto di chiunque a manifestare pacificamente, non significa che si stia difendendo un certo signor Chiunque, ma, appunto, il diritto di manifestare tout court, a prescindere dall'identità di quel «chiunque». Dovrebbe essere semplice. In una normale discussione.
Ma in Italia niente è normale. E perciò sul Manifesto Alessandro Robecchi mi bacchetta perché su questo giornale avrei preso le parti di «Chiunque», cioè di chi a Milano ha «sventolato le celtiche» durante la commemorazione di Sergio Ramelli, un giovane diciannovenne fascista che venne assassinato a colpi di spranghe nei funerei anni Settanta. Non è veto niente, ovviamente: le celtiche sventolate sono quanto di più lontano da ciò che penso. Ma penso che nessuno, compresa la Cgil, si possa arrogare il diritto di impedire una manifestazione commemorativa promossa dalla parte politica opposta. Certamente Robecchi potrebbe obiettare che in Italia esiste un reato come l'«apologia del fascismo». In questo caso vorrei solo ricordargli che un tempo esisteva in Italia una sinistra libertaria e antiautoritaria (esiste ancora, per la verità, sopravvissuta nella coraggiosa minoranza dei Radicali di Pannella) che si batteva per l'abolizione dei reati d'opinione, questi sì retaggi non smaltiti della dittatura fascista, e per la soppressione della censura, anche per le tesi più impresentabili. C'era un'altra sinistra, illiberale e intollerante, che considerava invece i diritti e le libertà civili di tutti, nessuno escluso, «sovrastrutture borghesi» e purtroppo, visto il tono sdegnato di Robecchi che chiede imperiosamente una mia «ritrattazione» (in tempi meno ipocriti si chiamava «autocritica»), ancora vitale nella nostra discussione pubblica.
Non difendo perciò le lugubri liturgie con cui i fascisti hanno sfilato per Milano, come è scritto sul Manifesto. Ma francamente troverei paradossale accettare lezioni di indignazione da chi non si indigna perché sul proprio giornale sono pubblicate vignette dall'evidente iconografia antisemita. Difendo invece un principio liberale che mi è molto caro, senza scomodare la celebre e oramai abusata formula di Voltaire. E difendo il dovere di ricordare che Sergio Ramelli, un fascista di 19 anni, morì in un'atmosfera di guerra politica violenta e intimidatoria in cui persero la vita numerosi, troppi giovani, di sinistra e di destra. E se si usa la parola «vergogna» bisognerebbe adoperarla anche per chi vuole rimuovere ed edulcorare il significato dì una morte atroce avvenuta 37 anni fa, e dimenticare che molti della «meglio gioventù» sfilavano allora nei cortei gridando slogan truculenti e vomitevoli come «uccidere un fascista non è -un reato». Spiace che la Cgil, grande e indispensabile sindacato, si sia fatta complice di questo oblio.
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