Il caso marò: quello che l’Italia non dice

Dalla Rassegna stampa

Meno male che resta la Bonino, garanzia di efficienza per i nostri marò prigionieri in India. Speriamo di riaverli a casa malgrado i pasticci delle diplomazie anche se è esagerato considerarli "prigionieri". Vita d’albergo, Tv con satellite. E poi passeggiate e studi. Salvatore Girone ha superato l’esame d’ammissione al corso serale dell’istituto tecnico Marconi di Bari. Media dell’8 via Skype. E la Farnesina si preoccupa della dieta. Menu mediterraneo che l’India paga senza battere ciglio: pizza, pane, cappuccino, eccetera. Girone è un secondo capo del battaglione San Marco; primo capo Massimiliano Latorre. Due anni fa hanno puntato i loro Berretta (dotazione Nato) sul barcone di pescatori confusi per pirati: due morti. Chi sopravvive avvisa la Guardia costiera che obbliga la petroliera italiana nel porto di Kochi. Pasticcio raccontato con protocolli disperatamente partigiani. Trascurano le registrazioni dei satelliti, le analisi dei proiettili. "Abbiamo sparato in acqua", ed ecco il ricamo dei colpi sul barcone. Senza contare che la nostra nave non navigava in acque internazionali, 33 miglia dalla costa come giura il comandante.

Latorre e Girone premono il grilletto a 24,5 miglia "zona contigua" che autorizza l’India a giudicare i colpevoli. Lo racconta Matteo Miavaldi nel libro I due Marò, edizioni Alegre. Vive in Bengala, caporedattore del giornale China Files. Se il buonsenso della Bonino rifiuta che la sventatezza dei marò diventi "terrorismo", non è ragionevole trasformare l’incapacità in senso del dovere. L’ultimo saluto del Letta con valigia in mano li assicura con "sentimenti di vicinanza" mentre il Quirinale annuncia per il ritorno gli onori dovuti. Onori perché? Il pasticcio l’ha disegnato l’ex ministro La Russa: scorte armate in divisa ai mercantili che affrontano il mare dei pirati mentre ogni paese affida l’accompagnamento a contractors, mercenari privati. L’Italia di due governi fa si affida alla Marina Militare non sempre addestrata a dovere. Dalla roccaforte della petroliera gigante i marò sparano su un peschereccio lungo 12 metri, velocità lumaca. Da una parte sei rambo di professione più 24 marinai che immaginiamo un po’ armati. Sul barcone 16 pescatori, due folgorati, gli altri dormono. Indovinare chi è Golia. Il groviglio giudiziario indiano trasforma gli sbadati in capitani coraggiosi nella sfida a Sandokan immaginari.

Un filo nero lega il La Russa alla perizia italiana affidata al finto ingegnere Luigi di Stefano, non solo vicepresidente della Casa Pound che subito inonda Roma con manifesti da ultima spiaggia: "Riprendiamoci i nostri soldati". A un atto di guerra si risponde con la guerra, cose così. Nel convegno a Montecitorio, Di Stefano ammette d’aver basato la perizia su informazioni di giornali e YouTube, subito sbugiardate dal satellite Maritime Rescue Center di Mumbai. Quando i prigionieri torneranno, immagino che la Procura militare avrà qualche domanda sulla loro professionalità. Evitiamo sbrodolamenti patriottardi, tipo medaglia d’oro, valor civile al contractor Fabrizio Quattrocchi, ucciso in Iraq. Medaglia che ancora rattrista la vedova Calipari e le famiglie dei carabinieri bruciati a Nassiriya. Per loro cortesie di routine. A Quattrocchi si è messa in bocca "vi faccio vedere come muore un italiano" quando la registrazione di Al Jazeera non esalta l’orgoglio di un idealista. Solo due parole: "Sono italiano". Per fortuna all’Onu non sanno che Roma, Firenze e Trieste gli hanno dedicato una strada. Ma per i marò l’Italia ha coinvolto Ban ki-moon. Evitiamo il ridicolo internazionale sull’incapacità che diventa eroismo.

 

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