E Casini si tiene stretto Di Pietro

Le parole non sono mai neutre. Hanno una storia, un colore, rimandano, scavano, indicano, segnano, marchiano. Non si possono usare a caso. Sono un segnale. Pensate a una sigla: Cln. Sta per comitato di liberazione nazionale. Che c’è di male a usarla? Qualche giorno fa Casini l’ha evocata. L’ha lasciata cadere sul piatto della politica. Come una citazione. Come una santa alleanza anti-Berlusconi. Come il buon Pierferdinando, che dopo le botte, il sangue e il Duomo sul volto del premier, non scarica Di Pietro e le sue parole.
Non c’è marcia indietro. La grande alleanza con Rutelli, Di Pietro, Pannella, Franceschini, D’Alema, Bersani, la Bindi, Ferrero, Bonelli, Diliberto sta lì, come una grande ammucchiata. Tutti contro uno. Tutti contro Berlusconi. Questo lo scenario politico messo in campo da Casini. Perfetto. Legittimo. È la politica. Il problema è il Cln. È indossare il basco dei partigiani. Forse Casini ne ha parlato nella calda e cordiale telefonata con Berlusconi. Hanno chiarito di cosa s’intende per comitato di liberazione nazionale? Il Cln è Bonomi, Scoccimarro, Amendola, De Gasperi, La Malfa, Fenoaltea, Nenni, Romita, Ruini e Casati. È quel gruppo di partiti che ha combattuto contro il fascismo. È l’ultima estate di guerra, la fine della dittatura, è l’Italia che si strappa la camicia nera. L’equazione allora è banale. Se Casini e gli altri sono i liberatori, Berlusconi chi è? Berlusconi diventa il tiranno. E contro i tiranni ogni gesto è lecito. I tiranni si abbattono. Vai lì e colpisci al volto. Come Bruto e Cassio lo lasci con la toga insanguinata in Senato, sotto la statua di Pompeo, paladino del mos maiorum, con 13 coltellate sul corpo. Ad Atene, nel sesto secolo avanti Cristo, VI secolo a.C., le statue di bronzo celebravano Armodio e Aristogitone, assassini del tiranno Ipparco. Da Luciano di Samosata a Cicerone, da Tommaso d'Aquino a Giovanni di Salisbury, dalla rivoluzione inglese a quella francese, da Mazzini ai regicidi anarchici, da Tolstoi alle rivoluzioni del XX secolo non si è mai smesso di ragionare sul tirannicidio, questa extrema ratio del «diritto di resistenza». Quando si tira in ballo «uno schieramento di forze repubblicane a difesa della democrazia», Berlusconi non è più il premier, non è il leader della maggioranza, non è più il politico che ha ottenuto più di 17 milioni di voti nel 2008. Berlusconi, semplicemente, non è più un uomo. È una statua da buttare giù. È Saddam o Fidel Castro. È l’indegno, l’usurpatore, è il capo dei capi, è la pazzia di Riccardo III che nella polvere della battaglia grida: «Il mio regno, il mio regno per un cavallo». E allora: shooting Silvio. Senza pietas e senza pietà. Come dice Travaglio: non posso rivendicare il diritto all’odio? Come dice la Bindi: e ora non faccia la vittima? Come dice Di Pietro: «Se l’è cercata». Se Berlusconi è un dittatore, allora noi siamo tutti degli assassini. È il nostro dovere civile. È il nostro urlo di libertà. C’è un solo piccolo problema: Berlusconi non è un dittatore. È il capo di un governo democratico. È questa non è un’opinione. È un dato di fatto. Chi lo nega o è in malafede o vive su Second Life. Nel primo caso serve un esame di coscienza, nel secondo si faccia curare. Tutto il resto è legittimo. Non votate Berlusconi. Non guardate il Tg4. Criticate le sue scelte politiche. Scioperate. Tifate contro il Milan. Non lasciatevi incantare da promesse e parole. Tutto. Fate anche il No-B day. Ma non inventatevi un tiranno che non c’è. Non improvvisate una maschera da antifascisti. È meschino fare i martiri della libertà in democrazia. È un’offesa a Gramsci, a Gobetti, a chi è caduto davvero sotto i colpi della dittatura. Questo è l’orizzonte culturale in cui siamo caduti. Ed è una farsa. È un carnevale di antifascisti senza fascismo. C’è cascato anche Casini, un moderato, un post democristiano, uno di centro, un ex alleato. Se lui parla di comitato di liberazione nazionale, figuratevi gli altri. È il ritornello di questi lunghi mesi. Tutti i giorni, su una costellazione di blog, sugli schermi televisivi, su molti giornali, nelle parole di tanti politici questo concetto è passato come un luogo comune. È il linciaggio morale di chi ha detto e ridetto: noi siamo i liberatori, lui l’uomo da cui dobbiamo liberarci. Fino a quando un pazzo non verrà chiamato eroe.
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