Caro Tremonti, giù le tasse per favore

C’è un detto diffuso tra gli economisti americani per cui "anche un gatto morto rimbalza". Come dire che dopo ogni caduta, in economia, segue sempre una risalita. Ma se il gatto è morto, la risalita sarà effimera. E il ritorno al segno più, per i corsi di un titolo come per la produzione di ricchezza di un paese, farebbe bene a non creare illusioni sulla salute dell’azienda o dell’economia che stanno dietro quel segno.
Perciò non bisogna guardare con troppo ottimismo ai deboli segnali di ripresa che hanno caratterizzato l’economia italiana in questi primi mesi dell’anno. Pil e produzione industriale sono tornate al segno più, ma già i prossimi mesi si annunciano tutt’altro che positivi. E l’approdo a una crescita stabile e sostenuta appare sempre più come un miraggio, una illusione destinata a sparire come una fata morgana nel deserto. Sono vane le dispute nominalistiche sul declino o meno dell’Italia. Vane e un po’ deprimenti, quasi che l’analisi economica si riduca a battibecco tra italiani e anti italiani, sostenitori del governo e simpatizzanti dell’opposizione. Si dimentica la lezione di Luigi Einaudi: la consapevolezza della realtà come base dell’agire politico, conoscere per deliberare.
Se vogliamo contribuire a un ritorno del nostro paese a un percorso di crescita e di sviluppo, dobbiamo innanzitutto partire dalla realtà. E allora, come hanno spiegato in un bell’articolo sul Sole 24 Ore Guido Tabellini e Giorgio Barba Navaretti, la prima cosa da fare è sbarazzare il campo dall’equivoco che le cose dopo tutto non vanno poi così male. Le cose, per l’economia italiana, vanno male. E non da oggi.
Nel triennio 2005-2008 il prodotto interno lordo è cresciuto di oltre otto punti meno della media dell’area curo. Il 2009, l’anno della crisi, ha visto poi un arretramento del nostro reddito del 5 per cento contro il 4,1 per cento dei nostri partner europei. E le previsioni per il 2010-11 non indicano certo che la ripresa italiana sarà più rapida degli altri paesi dell’area curo.
Per tornare ai livelli di ricchezza precrisi, ai ritmi di crescita oggi prevedibili per i prossimi anni, sarà necessario almeno un quinquennio, Ma gli altri paesi, nel frattempo, avranno corso molto di più, sulla scena si saranno affermati nuovi giganti economici oggi in ascesa, la nostra quota del commercio mondiale risulterà fortemente ridimensionata.
Al recente convegno di Parma della Confindustria, pur in un contesto di grande prudenza politica, l’analisi del centro studi è stata implacabile, segnalando in particolare una forte preoccupazione per le sorti della manifattura, da sempre fiore all’occhiello della nostra economia. C’è un rallentamento ventennale del tasso di crescita della produttività sia del lavoro che dell’insieme dei fattori produttivi. Tra il 1995 e il 2007, il valore aggiunto per ora lavorata dell’industria manifatturiera è cresciuto del 6,6 per cento, contro il 51 per cento in Francia e il 45 per cento in Germania.
I salari, lordi e netti, sono tra i più bassi d’Europa, e mortificano potere d’acquisto delle famiglie e consumi. La spesa per investimento flette, mentre continua a correre quella corrente e la crescita del debito pubblico non si arresta. Questa è la realtà che abbiamo davanti. Ed è la realtà di un paese che, senza interventi coraggiosi, è destinato a perdere il proprio futuro e a perdersi. Perciò leggo con sofferenza le affermazioni di chi sostiene che le riforme prioritarie per l’Italia siano quelle istituzionali. Non che uno stato e una politica più efficienti non siano un’infrastruttura fondamentale del nostro paese, anzi, ma sono anni che se ne discute senza risultati apprezzabili. E intanto l’Italia arretra.
Sarebbe opportuno che in primo piano, nella discussione politica, tornino ad esserci le riforme economiche. E non per una di quelle giaculatorie, cui ormai ci stiamo assuefacendo, sul che fare. Più ricerca, più formazione, più education, certamente. Meno burocrazia e più legalità, non c’è dubbio. Magari efficienza del settore pubblico e migliore allocazione delle risorse disponibili. Tutto giusto e condivisibile. Ma io credo che non ce la faremo se non saremo in grado di dare un vero e proprio choc di crescita al nostro paese. Una scossa che segni anche un cambiamento strutturale per l’economia italiana.
E lo choc potrà venire solo con una poderosa riduzione delle imposte che oggi gravano sul lavoro e, indirettamente, sulle imprese. Serve un abbattimento massiccio e generalizzato delle imposte sulle persone fisiche e sulle società. Un intervento radicale, nell’ordine di molti punti percentuali su tutte le aliquote. Secondo i dati dell’Ocse e della Kpmg l’Italia oggi è ai primi posti nel mondo per pressione fiscale. Malgrado le ripetute promesse di tagli, il peso del fisco resta intorno ai massimi storici. E pesa in particolare il cosiddetto "cuneo", cioè proprio le imposte che trasformano buste paga pesanti per le imprese in buste paga leggere per i lavoratori. E’ soprattutto qui che bisogna agire. E bisogna farlo con un taglio tale da offrire un fattore nuovo di competitività alle imprese, ormai schiacciate nella concorrenza
mondiale sulle retribuzioni; e in modo da rilanciare la propensione al consumo degli italiani, dando loro la certezza di guadagnare di più, subito e in prospettiva.
So bene che una simile proposta si potrebbe scontrare con la realtà di un debito pubblico in costante crescita e con un rischio Grecia, che è una realtà per un paese come il nostro che è sempre in mezzo al guado. Chi, come me, è invecchiato in un’Italia sempre al limite del baratro del default non può che considerare il rigore nei conti come una necessità prima ancora che una virtù. Ma il rigore non può essere una scusa per non fare. Altrimenti, la cura del rigore porterà il paziente Italia alla morte. Le imposte sul lavoro si possono ridurre. Si possono ridurre, innanzitutto, conducendo un -- questo si - rigoroso e coraggioso taglio della spesa pubblica. Molta di questa spesa è obbligatoria, perché è fatta di stipendi e servizi essenziali, ma c’è una quota di almeno il 10 per cento sulla quale si può e si deve agire, anche a costo di pagare nel breve un pegno in termini di consenso. Sulle pensioni, per esempio, servirebbe un
generalizzato aumento dell’età del ritiro: proprio non si rapisce come possiamo permetterci di continuare ad essere uno dei paesi l’Europa dove ci si ritira prima dal lavoro. Ma anche sulla spesa per l’acquisto di beni e servizi della Pubblica amministrazione è venuto il tempo di fare davvero sul serio per ridurre sprechi e liberare risorse utili alla crescita.
C’è poi una vera rivoluzione fiscale da attuare. Ne ho parlato già qualche mese fa in un articolo sul Sole 24 Ore. Ma la sola evocazione del termine patrimoniale ha suscitato reazioni irrazionali. Qui non si tratta di intervenire con una tantum per colpire la ricchezza improduttiva. Il senso di quello che propongo è spostare il peso del fisco dalla produzione e dal lavoro alla ricchezza che si fa cose. Dalle "persone alle cose", ha sintetizzato in uno slogan efficace il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel suo libro bianco sul fisco. E io trovo giusto quel proposito. E’ quello il risultato che bisogna centrare. Ma davvero e subito, senza aprire un dibattito infinito che sembra avere il solo obiettivo di lasciar trascorrere tre anni di legislatura tenendo occupata in qualche modo l’opinione pubblica.
Sono passati 25 anni dalla riforma fiscale del mio amico Bruno Visentini. Dalle sue parole ho compreso come la politica fiscale sia il luogo in cui si concretizza in chiave etica il rapporto tra autorità e libertà. Ed è anche con quello stesso spirito che, in questo momento cruciale per la nostra economia, dobbiamo tornare a una grande riforma del sistema fiscale. Ripeto: una riforma in senso liberale. Perché favorire fiscalmente chi produce e lavora, penalizzando chi accumula, come ci ha insegnato Luigi Einaudi, è l’essenza stessa del liberalismo. Dalle persone alle cose significa, nella mia proposta, spostare il peso del fisco dal contribuente, soggetto al prelievo di Irpef o Ires, alla manifestazione di spesa, al consumo finale soggetto al prelievo Iva. In questo modo si allenterebbe la morsa su chi lavora e produce, concentrando il prelievo sulla manifestazione reale della ricchezza all’atto del consumo, con il recupero di un’ampia fetta di evasione-erosione ormai cronica. Una riforma che, tra l’altro, metterebbe l’Italia in linea con il resto d’Europa. Chi ha confrontato la struttura fiscale italiana con quella del Regno Unito e della Spagna, grandi paesi con un fisco poco oppressivo, ha evidenziato che mentre la quota di gettito sul Pil proveniente dal consumo e dal capitale non è molto diversa nei tre paesi - intorno al 10-11 per cento - la quota di gettito fiscale proveniente dal lavoro è in Italia decisamente più alta: 20,6 per cento contro un 16,6 per cento della Spagna e un 14,3 per cento del Regno Unito.
In altri termini, il maggior carico fiscale italiano rispetto a Madrid e Londra è sostanzialmente patito dal lavoro, mentre la tassazione sul consumo e sul capitale è in linea con quella degli altri due paesi.
Ridurre il peso del fisco sul lavoro, quindi, si deve e si può, tagliando la spesa pubblica e spostando il carico da persone a cose. E magari alle cose che inquinano, con una vera e propria "green tax reform".
L’opportunità di spostare una parte significativa del gettito dalle imposte sul lavoro a quelle che riguardano il prelievo di risorse naturali è tra le più sostenute dalle istituzioni internazionali e avrebbe il merito di avere un ampio consenso nell’opinione pubblica. L’Ocse, come ha spiegato in un bell’articolo pubblicato dalla Voce.info Antonio Massarutto, ha istituito negli anni Novanta un programma finalizzato a promuovere il trasferimento di almeno il dieci per cento del gettito. sostenendo che in questo modo si potrebbe ridurre in modo significativo l’impatto distorsivo del sistema tributario e insieme incentivare comportamenti più virtuosi da un punto di vista ambientale. Un programma in questo senso. Inoltre,
avrebbe anche il pregio di avvicinare il fisco al contribuente, riorientando il prelievo in senso più federale. E questo è un elemento in più per rendere oggi l’intervento politicamente più praticabile. Ma la politica non è il mio terreno. Sono altri ad avere la responsabilità di dare una percorribilità politica alle idee per lo sviluppo. Di certo l’Italia, oggi più che mai, non si può permettere una politica inerme. Quando il "miracolo economico" cominciava a mettere le radici nel nostro paese un grande valtellinese di quell’epoca, il ministro del Bilancio Ezio Vanoni, presentò il suo ambizioso "Schema di sviluppo" in Parlamento. Ne scaturì un pezzo di storia, non solo economica, d’Italia.
Oggi siamo a un momento altrettanto importante della nostra vicenda storica. Servono piani non meno coraggiosi. E soprattutto uomini, valtellinesi o meno, in grado di tradurli in realtà.
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