Carlo De Benedetti, ovvero Berlusconi sotto mentite spoglie

«I grandi uomini d'affari non dicono mai la verità». Bisognerebbe scolpirla nella pietra, la regola aurea di Gianpaolo Pansa. Regola che vale doppio quando c'è da fare i conti con l'ingegner Carlo De Bendettti e con le di lui cicliche smentite a proposito di un suo pomposo ingresso in politica. Anche perché per indovinare quanto autentico interesse per la "cosa pubblica" alberghi nell'animo del patron del gruppo Espresso non c'è bisogno di raffinati vaticini, e neppure di piazzare cimici nella sua auto, come pare fu fatto un paio di anni fa. Per un motivo molto banale: De Benedetti in politica c'è già, e con tutte le scarpe. Semplicemente non ha ancora commesso l'imprudenza del coming out fatale, ben accorto a non esporsi in prima persona, ma parecchio incline all'altissima intercessione e all'invisibile regia: «Sono sempre stato contrario all'impegno degli imprenditori in politica perché l'imprenditore è un autocrate mentre un politico deve essere democratico». Precetto discutibile, specie nella parte finale, ma tant'è. Ciò che conta, per personaggi di un certo calibro che non hanno bisogno di vergare il proprio nome in calce a qualche squallido listino elettorale, è la possibilità di frequentare i salotti buoni della politica, di entrare e uscire con disinvoltura dalle porte girevoli del Palazzo ed essere ricevuti a consiglio da capi di partito, di Stato e di governo. Elenco (disordinato) degli incontri ufficiali registrati dalle agenzie: De Mita, Martelli, Andreotti, Spadolini, Goria, Cossiga, Craxi, Dini, Mancino, il Papa, Scalfaro, Ciampi, Prodi, Bertinotti, Fini, Schifani, D'Alema, Maccanico, Occhetto, La Malfa.
Voi dite che non basta, e avete ragione. Le stagioni politiche sono ritmate da grandi svolte e la svolta, come sempre accade, sono i piccioli, i dindi, i soldi, i denari o come diavolo volete chiamarli. Ad avercene ce ne ha sempre avuti, Carlo De Benedetti, proprio come il sire di Arcore che nel freddo gennaio del '94 decise che era giunta l'ora dí usarli per "scendere in campo". Ma avercene tantissimi, dopo aver sfilato al Cavaliere la bellezza di 540 milioni di euro grazie alla sentenza sul lodo Mondadori, è tutta un'altra cosa, è circostanza che può solleticare appetiti più grandi.
La Terza Repubblica del capo di Repubblica sarebbe il perfido contrappasso consumato al termine di una battaglia durata ben più del ventennio di potere berlusconiano che ci siamo lasciati alle spalle.
Ma sbaglieremmo a leggere questa traiettoria alla stregua di una rincorsa. De Benedetti preesiste a Berlusconi, esattamente come il capitalismo piemontese di cui il nostro è illustre esponente precede - nella storia economica d'Italia - la sterzata ambrosiana. L'ingegnere entra intorno ai quaranta nell'orbita degli Agnelli (con Umberto erano anche compagni di scuola) e nel 1976 approda alla Fiat come amministratore delegato. Esperienza fulminea: molla il timone in contrasto con la famiglia dell'Avvocato troppo timida, a suo dire, sul piano di "razionalizzazione" della manodopera che si va perfezionando al Lingotto. Evidentemente De Benedetti ha già altre mire: in quello stesso anno prende in mano la Cir; passano due anni e comincia l'avventura alla Olivetti. Ma nel mondo dell'industria e della finanza si muove come un furetto, scalando società e poi capitolando una volta giunto sulla vetta, accettando incarichi e abbandonandoli con estrema rapidità non appena fiuta odor di fallimento, come la vicepresidenza del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, sull'orlo del crac.
Il primo vero duello con Berlusconi risale al 1985. Oggetto del contendere la "svendita" della Sme, finanziaria del settore agroalimentare dell'Iri. Contro la decisione di assegnare il pacchetto alla cordata Barilla-Ferrero-Fininvest, l'allora presidente della Buitoni farà ricorso senza però ottene- re nulla. E l'antipasto di un'altra battaglia campale che si apparecchia tra il Cavaliere e l'Ingegnere, ossia quella per l'acquisizione della Mondadori, passata alla storia come la "guerra di Segrate". La Cir e la Fininvest vantano l'eredità del colosso dell'editoria. Il collegio arbitrale dà prima ragione a De Benedetti, poi i giudici della corte d'appello di Roma, nel '91, annullano il Lodo e spianano la strada a Berlusconi. È da allora che il campo è spaccato a metà come una mela: Repubblica, Espresso e i quotidiani locali Finegil a De Benedetti, a Berlusconi invece Panorama e tutto il resto della Mondadori. Riparte poi un mostruoso iter giudiziario che culminerà nel mini-ribaltone (o maxi-risarcimento, fate voi) del 2011...
In questi lunghi anni ci hanno raccontato le differenze tra i due imprenditori, simboli di due Italie contrapposte in modo manicheo: da una parte il Caimano assetato di potere e proteso alla lascivia, dall'altro il manager illuminato con a cuore le sorti morali del Belpaese. Pochi si sono prodotti in analisi più spericolate sulle analogie tra questi cavalieri del lavoro nati a metà degli anni Trenta: l'impero mediatico del tycoon del Biscione e l'impero in minore dell'editore italo-svizzero sono in realtà facce di una stessa medaglia: identico è il milieu di frantumazione partitica che promette l'ingresso dell'outsider che spariglia, identico il bisogno da parte di entrambi di dettare l'agenda, di tracciare il confine e l'orizzonte, di farsi paladini di una rinascita purchessia e dipingere i perimetri del lecito, del giusto, del necessario, dell'opportuno.
Come il crollo della Prima Repubblica ha aperto il varco a Berlusconi, così il crepuscolo della Seconda concede il proscenio all'altro uomo nuovo che nuovo non è. E ancora: come Berlusconi ha usato l'antipolitica per farsi largo tra le macerie del pentapartito, così De Benedetti cavalca l'indignazione (composta) di fedeli senza chiesa a disagio in questa post-democrazia e ora costretti a scegliere tra Grillo e Saviano, che poi è un Grillo dal volto umano. Per completare il "gemellaggio", al gran visir del gruppo Espresso mancherebbe la tivvù, ma sembra che anche su quel fronte ci stia lavorando, se sono veri i rumors di un'Opa su La7.
«Siamo esattamente l'opposto» rispose piccato De Benedetti a chi con insolenza faceva osservare le somiglianze con Re Silvio. Dimenticando che con il suo "opposto" aveva pure battezzato un fondo comune salva-aziende, non a scopo caritatevole ma «per fare soldi».
E comunque. All'incedere smargiasso dell'inquilino di palazzo Grazioli la controffensiva "repubblichina" ha sempre risposto con l'arruolamento in forze del main stream, una rete satellitare di intellighenzia progressista e consumo responsabile col timbro dell'etica. Chi ci vide lunghissimo fu quel volpone di Marco Pannella, che addirittura inscenò un convegno-processo a carico dell'ingegnere nel lontano 1993: «A differenza di Berlusconi questi ci hanno sempre voluto insegnare la morale. E un gruppo politico, finanziario e editoriale, una parte del potere nel paese. È un partito improprio, non un giornale d'opinione».
Ecco, il partito improprio diventerà partito e basta? Assurdo immaginarlo come diretto competitor alle prossime elezioni, ma una cosa è certa: il tandem col Pd non basta più, il centrosinistra ulivista si è perdutamente rinsecchito, è un campo troppo arido e troppo angusto per i sogni di gloria dell'armata scalfarian-debenedettina. Destino vuole che la "tessera numero uno" del Partito democratico - circostanza sempre smentita dall'interessato - sia anche il suo più solerte sicario. Dopo aver a lungo duellato con D'Alema, fino ad antipatici screzi personali, De Benedetti sta per silurare la leadership di Bersani («la gente vuole archiviare questo periodo») e "infestando" il Nazareno con la gramigna delle liste civiche di salvezza nazionale o di legalità che dir si voglia. Novità che il segretario "sfiduciato" dovrà accogliere con smodato entusiasmo oppure osteggiare con forza inaudita. Tertium non datar, pena l'eclissi. Un vero capolavoro. Ben scavato, vecchia talpa!
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