Il carisma e la croce

Dalla Rassegna stampa

Soffocata nello stupore di quella notte di novembre di un anno fa, la frase sembrava una delle solite formulette retoriche "usa e getta", ed era invece una profezia amara. «La strada che abbiamo davanti - disse Barack Hussein Obama davanti a una folla, a una nazione e a un mondo che volevano disperatamente tornare a credere - sarà lunga e ripida, disseminata di sconfitte e di inciampi. Non arriveremo alla meta in un anno, forse neppure in quattro».
La folla preferì non ascoltarlo. Quella era la notte di nozze, il tempo dell´incanto, ma aveva visto giusto lui. Un anno dopo la notte di Chicago, la strada di Obama presidente si è rivelata scoscesa, gli inciampi sono stati molti e la promessa del change, del cambiamento, resta lontana. Ma l´uomo che non si fermò neppure davanti alla montagna più ripida, alla propria storia e alla propria diversità, è ancora in piedi e continua a camminare. Da simbolo di ogni illusione e di ogni speranza, è tornato a essere il presidente di una democrazia reale, un amministratore che deve misurarsi ogni giorno con la complessità di un sistema costituzionale che non permette a nessuno di considerarsi un messia o un uomo della provvidenza.
Furono pochi, la sera del 4 novembre a Chicago quando pronunciò il discorso della vittoria, a mettersi di traverso sulla strada della sua apoteosi. Troppo grande era la carica di novità e di aspettative che lo aveva spinto sul podio, e troppo sbalorditivo era stato il trionfo elettorale di un candidato che ancora 12 mesi prima la nazione ignorava e soltanto televisioni e giornali avevano adottato per fame di qualcosa di diverso. Barack Obama era stato, prima di essere ogni altra cosa, una notizia, un storia, un video che lui, con la sua presenza fisica e la sua brillantezza, dominava.
Aveva cavalcato, come un magnifico surfista, il senso di colpa dell´America bianca che in lui voleva lavare definitivamente il peccato originale della nazione, lo schiavismo. Era stato l´orgoglio dell´America invisibile, il popolo di colore. Aveva regalato a un mondo offeso dalla presidenza Bush quel volto affascinante ed esemplare che i più vecchi avevano visto nei Kennedy e i più giovani cominciavano a dubitare che esistesse.
Questa enormità di attese, questa carica simbolica sono state insieme le ali e poi sono divenute la zavorra di un uomo politico che ha prima sfruttato e ora sta pagando il prezzo del proprio immenso carisma. L´evento unico della sua vittoria, che resterà scritta permanentemente nella storia qualunque sia l´esito della sua amministrazione, era stato confuso con la garanzia di un trionfo nella attività di governo. Obama avrebbe risolto tutto, d´incanto, la catastrofe finanziaria bushiana, l´iniquità dell´assistenza sanitaria, la piaga del conflitto arabo-israeliano, le guerre ereditate, avrebbe ammansito l´Iran e convertito l´universo musulmano alla democrazia jeffersoniana, con la forza del Verbo. La benedizione del carisma, che Max Weber definì come qualcosa di «sovrumano e sovrannaturale», addirittura «di origine divina», lo aveva sospinto sulla vetta di attese irragionevoli e irrazionali, come tutte le campagne elettorali creano, ma che nel suo caso sembravano possibili grazie alla eccezionalità della persona. L´Obama presidente è stato, per naturale contrappasso, penalizzato dall´inevitabile ridimensionamento del proprio carisma di fronte alla realtà del potere. Senza più la copertura dell´infatuazione giornalistica, divenuta dovere di critica, i primi dodici mesi del Presidente Obama sono stati misurati con una aggressività direttamente proporzionale alla celebrazione del Candidato Obama.
La sua popolarità è tornata a livelli umani, dalle altezze mistiche di quella notte a Chicago, qualche punto sopra il 50%, dove infatti lo aveva collocato il 53% degli elettori. I cambiamenti promessi si sono arenati nella intrattabilità del mondo e nella palude del Parlamento. E il coro dei rancori, dei risentimenti ideologici ma soprattutto razziali che lo shock della sua vittoria aveva ammutolito, hanno ritrovato voce, dannandolo sulle piazze con caricature di Obama truccato da Hitler, da Stalin, da Bush Nero, da traditore della sinistra, da neo-socialista, da anti-americano, persino da impostore che ha truccato il proprio certificato di nascita per farsi credere un "nativo", la condizione indispensabile per diventare presidente.
Obama era diventato un personaggio facile da odiare quanto era stato facile amarlo la sera del 4 novembre, con la statuaria Michelle al fianco e Sasha e Malia eccitate e felici come a una recita scolastica. Ad aumentare il livore di chi ora sta sfogando quell´odio razziale che non aveva osato pronunciare il proprio nome, è intervenuta la apparente ingualcibilità di un uomo che sembra attraversare l´ordalia senza abbandonare quella sua aria languida, distaccata, leggermente ironica anche davanti all´inopinato Nobel per la Pace, senza mai assumere toni isterici o risentiti, affidati ai portaborse e agli assistenti. Soprattutto, manda su tutte le furie i suoi nemici il fatto che Barack Obama, dismessi i sandali del profeta che la campagna elettorale gli aveva calzato, continui a camminare.
La sua riforma del sistema sanitario avanza, seppure perdendo pezzi e ambizioni nel gioco dei compromessi con i parlamentari e i lobbisti delle grandi compagnie che li finanziano, e arriverà certamente alla meta.
Guantanamo, la base della vergogna costituzionale dell´America di Bush, sarà chiusa, anche se oltre la scadenza promessa del prossimo 31 dicembre, perché richiede il consenso del Parlamento su che fare dei prigionieri. La guerra in Afghanistan continua e si estende, come aveva sempre detto in campagna elettorale, anche alle basi dei Taliban e di Al Qaeda in Pakistan, e Obama non può essere disegnato come una mammola. E la macchina della finanza e dell´economia sta realmente uscendo dal peggio della crisi, in attesa che riparta il mercato del lavoro, che è sempre in ritardo di mesi rispetto al miglioramento dei conti aziendali.
Senza la croce di quel carisma che dopo averlo fatto volare ora lo penalizza, questo primo anno di Obama non sarebbe né un trionfo né una delusione, ma il primo anno normale di apprendistato a un lavoro, al quale - e questa era la vera e fondata preoccupazione che lo aveva accompagnato - non era preparato.
Dopo averlo sopravvalutato nei giorni dell´apoteosi, oggi la tendenza è cadere nell´errore opposto, quello di sottovalutarlo e di dichiarare la sua presidenza un "flop". Più onestamente, la magnifica anomalia di Barack Hussein Obama è divenuta la normalità di un presidente in una democrazia che non incorona mai nessuno re. E chiede, secondo il principio evangelico, molto a chi molto ha avuto.

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