Carcere e malattia mentale quelle parole impronunciabili

Dopo la morte, anzi l’omicidio, di Stefano Cucchi e il suicidio di Diana Blefari, l’Italia forse si ritrova (finalmente?) a guardare nelle sue galere. Non i soliti Radicali, che le prigioni le visitano dai tempi di Beccaria, ma l’Italia tutta. Per un attimo. E, come sulla vicenda Marrazzo, quando è toccato nelle viscere, il Paese reagisce visceralmente. In certa sinistra è già partito il riflesso tipo: «Se vedi un punto nero... ». Gli “agenti” sono tutti, per definizione, geneticamente violenti e picchiatori. A destra invece è partita la patetica e surreale difesa d’ufficio dei “nostri ragazzi”. Ma se la storia di Cucchi richiama Genova, Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi e tutti gli altri casi di assurde violenze, più o meno accertate, delle forze dell’ordine, il suicidio della brigatista Blefari aggiunge un’altra dimensione alla discussione e chiama in causa, direttamente, l’innominabile: la malattia mentale. Diana, si è detto, stava male. Non doveva stare in carcere. E dove allora? Chi ci deve stare in carcere? A fare cosa? E come si fa a stare “bene” in carcere (specie se ti hanno appena comminato una pena “senza fine” come l’ergastolo)? Domande. In carcere ci sono principalmente poveracci e malati di mente. Ai primi serve un lavoro, ai secondi un medico e una struttura che gli impedisca di distruggere se stessi e/o gli altri. Non è la più sofisticata delle analisi sulla popolazione carceraria italiana, ma è una buona approssimazione. Tolti i malati e i poveracci, di delinquenti in carcere ne restano davvero pochi (e smettetela di pensare a Previti o a Cuffaro). Mettere in galera un poveraccio o un malato serve davvero a poco. Non imparano alcuna lezione dentro, e infatti i tassi di recidiva sono altissimi, tanto da permettere, tranquillamente, di affermare che il carcere è una istituzione fallita. Nel 2006, quando ci fu l’ultimo indulto, il dibattito si era momentaneamente riaperto. A che serve il carcere, come deve essere gestita la pena? Tutte queste domande girarono nell’aria per lo spazio di una breve estate. Poi tornò la marea nera della cultura reazionaria, quella della pena come punizione. E se il carcere deve punire, più schifo fa meglio è, in fondo. Così oggi siamo qui aggrappati al minimo vitale, all’abc della civiltà, rappresentato dalle battaglie radicali per i diritti dei detenuti. Il discorso però è un po’ più complesso, specie per quanto riguarda la categoria “malati di mente” che, udite udite, sono violenti. Lo sono i tossici spesso, come ben sa chi lavora nei Sert. Ma non serve essere tossicodipendenti per essere malati. La Blefari, per esempio, si è ammalata in carcere o era malata quando ha partecipato all’assassinio di D’Antona? O quando l’ha pensato? Il tema del reato e della pena è certo uno di quelli in cui si misura la debacle del campo progressista. La cultura di sinistra ha prodotto, da un lato, l’idea del carcere rieducativo, che porta con se il concetto di trasformazione. Dall’altro ha dimostrato l’assoluta incapacità di affrontarlo teoricamente. A partire dal nodo principale dei crimini violenti: il concetto di capacità di intendere e di volere. La sinistra poi porta ancora con se i germi della stagione anti-istituzionale. Se molti Opg sono effettivamente dei lager, è l’idea stessa dell’Opg che è avversata a sinistra, come tra i liberali. Vuoi per un residuo di basaglismo, vuoi per il principio antico liberale che avversa una pena della cui durata non c’è certezza. Il numero dei suicidi in carcere però è piccola cosa rispetto al totale, rispetto alle depressioni, alla diffusione del disagio psichico tra i giovani. Eppure non si ricorda l’ultima manifestazione contro la chiusura di quelli che si chiamavano centri d’igiene mentale. Quasi nessuno combatte per la sopravvivenza dei presidi psichiatrici pubblici, che vedono falcidiati i fondi a ogni finanziaria. Neanche i Radicali.
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