Il cammino da riprendere

Dalla Rassegna stampa

Se, nel 1994, Berlu­sconi non fosse entrato in politi­ca, la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto avrebbe vinto le elezioni. Non è un me­rito da poco. Dovrebbe­ro riconoscerglielo an­che i postcomunisti. Che, se fossero andati al­lora al governo, non sa­rebbero approdati a un socialismo più democra­tico, anche se ancora pa­sticciato. E quando è fi­nito in minoranza si è sempre riproposto co­me alternativa modera­ta e liberale. È un meri­to che la maggioranza degli italiani gli ha rico­nosciuto riportandolo al governo. Qualcuno di­ce più per debolezza dei suoi avversari che per forza propria; qualcun altro, per dabbenaggine degli elettori. Ma in de­mocrazia — che piaccia o no — contano i voti.

Al governo, ha gestito bene le «emergenze», la spazzatura in Campa­nia, il terremoto in Abruzzo; in economia l’Italia ha retto meglio di altri Paesi la crisi fi­nanziaria; in politica estera — anche se spes­so ha ecceduto nell’attri­buirsi meriti di mediato­re mondiale che sareb­be stato difficile ricono­scergli — ha intessuto eccellenti rapporti con due Paesi vitali per gli approvvigionamenti energetici dell’Italia, la Russia di Putin e la Li­bia di Gheddafi, nonché con quelli del Mediterra­neo. Ha pagato, però, un prezzo, forse troppo alto, nel rapporto con Washington. È stato un «gestore di eventi» più che un uomo politico con una «certa idea del­l’Italia » da realizzare con forte determinazio­ne; pubblicamente libe­rale, gliene manca la personale convinzione. Da ex uomo d’affari, ten­de a confondere il Consi­glio dei ministri col Con­siglio di amministrazio­ne di una società della quale è il presidente; a premiare chi gli è «fede­le » più di chi gli è (solo) «leale»; è insofferente di ogni ostacolo — com­preso il costituzionale equilibrio dei poteri — alla propria volontà, non per inclinazione al­la tirannia, ma per natu­rale vocazione monopo­l­istica.

Tre sono le riforme «promesse e non realiz­zate » che il Berlusconi li­berale dovrebbe impe­gnarsi ora a portare avanti per dare un profi­lo diverso alla legislatu­ra. Quella fiscale (tre ali­quote: zero, 23 e 33 per cento) e un taglio pro­gressivo dell’Irap; quel­la della pubblica ammi­nistrazione (riduzione della spesa e semplifica­zione legislativa); quella giudiziaria (separazione fra pubblico ministero — interprete del mono­polio della legittima co­ercizione statuale — e il Giudice, garante dei di­ritti dell’Individuo). Fi­nora questo spirito rifor­matore e liberale si è vi­sto poco. Per molte ra­gioni e non solo per de­merito del governo. Hanno pesato i ritardi culturali del Paese; le re­sistenze corporative e le vischiosità istituzionali; la crisi economica. Né il centrosinistra, una volta al governo, ne sarebbe immune.

Ora, Berlusconi ha l’opportunità di rilancia­re l’azione liberale e ri­formista del suo gover­no. Se lo farà, darà ragio­ne a quegli elettori che, sognando il cambiamen­to, lo hanno scelto per­ché «anti-italiano» e non, come qualche vol­ta appare, «arci-italia­no ».

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