Cambio di generazione

Dalla Rassegna stampa

Anche se è stata accolta come un colpo a sorpresa, per chi ha seguito da vicino le vicende della Fiat e di Torino, la notizia del cambio della guardia ai vertici dei Lingotto - con Luca Cordero di Montezemolo che lascia la presidenza a John Elkann -, non ha nulla di imprevedibile. Anzi era attesa. Elkann era da tempo preparato ad assumere la piena responsabilità del gruppo. La gradualità con cui è salito, prima al comando dell’Exor, la società che detiene il controllo della Fiat, poi, solo qualche giorno fa, a quello dell’Accomandita di famiglia, e ieri alla guida della maggiore impresa industriale italiana, rispetta semmai la tradizione familiare di mettere alla prova il nocchiero prima di affidargli il timone.
In questo senso, John era destinato al suo nuovo impegno fin da quando, dopo la morte del cugino Giovanni Alberto, l’Avvocato aveva deciso di puntare su di lui. Designato dal nonno, il senatore Giovanni fondatore della Fiat, anche Gianni Agnelli aveva deciso di scegliere il nipote.
Per questo, John, a soli diciotto anni, era venuto a vivere in Italia. S’era iscritto al Politecnico di Torino e inizialmente aveva cominciato a vivere in un pensionato studentesco. Il tirocinio con il nonno consisteva nello stargli vicino, conoscere i suoi principali collaboratori, assistere a momenti importanti, della vita italiana e della Fiat, cercando di capire e ascoltando le spiegazioni, ma facendo meno domande possibile. Perché il messaggio che l’Avvocato gli aveva trasmesso era che esisteva un programma - in base al quale, ad esempio, John, esattamente come l’Avvocato, a ventun anni era stato chiamato nel consiglio della Fiat -, e tuttavia nulla era scontato: il ragazzo avrebbe dovuto farsi le ossa e dimostrare di essere all’altezza del ruolo.
A complicare e a rendere tutto più incerto, a cavallo del Duemila, era arrivata la grande crisi della Fiat. Una crisi aggravata dalla malattia e dalla morte dell’Avvocato, e poco dopo da quella del fratello Umberto. E’ in questa difficile situazione che la famiglia Agnelli, riunita in assemblea con Gianluigi Gabetti, disegna il nuovo vertice, chiamato a gestire l’emergenza: alla presidenza della Fiat va Montezemolo, John è vicepresidente, l’amministratore delegato è un nome nuovo, proposto da Gabetti che assume il ruolo di garante dell’intera operazione: Sergio Marchionne, artefice della rinascita, non tarderà a farsi conoscere e a far parlare di sé.
Se questa è appunto la successione degli eventi, che dal 1999 delle grandi celebrazioni torinesi del centenario della Fiat al 2004 dei grandi lutti e del punto più basso della crisi, hanno portato l’ultimo grande gruppo familiare industriale a scommettere ancora sulla dinastia, attrezzandosi nel frattempo per affrontare la tempesta, quel che è successo dopo, fino a ieri, si spiega chiaramente. L’ascesa di John alla guida dell’Exor, e più di recente dell’Accomandita, ha dato il senso del suo approdo, col pieno appoggio dei suoi familiari, al ruolo di capofamiglia (e di responsabile degli affari familiari) che era stato dell’Avvocato. E ciò motiva anche la volontà di Gabetti, resa pubblica limpidamente, di por fine al suo ruolo di tutor, ora che l’erede è pienamente titolato a ricoprire tutte le sue responsabilità. La staffetta con Montezemolo - accompagnata dal grande riconoscimento, non formale, ma aziendale e della famiglia, per i meriti della sua presidenza in questi sei difficilissimi anni - sta a significare che è finita almeno quell’emergenza che aveva avuto il suo apice nel 2004. Poi, si sa, la vita di un grande gruppo automobilistico, nel presente e nel futuro, è destinata ad andare incontro a una serie continua di sfide, sui nuovi mercati e sull’orizzonte globale, sulla frontiera delle concentrazioni e degli equilibri in continuo cambiamento dell’economia mondiale. Parte di queste sfide, va detto, la Fiat le ha affrontate negli ultimi anni. Parte ancora vengono anche dalla sua tradizione, perché il gruppo, da metà del secolo scorso, e dalla Russia al Brasile, dall’India alla Cìna, ha scelto di misurarsi sul crinale della concorrenza più insidiosa e delle competizioni più ardue. Marchionne è stato l’uomo che più di altri in passato ha spinto in questa direzione, e ha segnato un grande risultato con l’ingresso nella Chrysler. John, come rappresentante dell’azionista di controllo, è sempre stato al suo fianco. Ma adesso, non è un mistero, si tratta di entrare con una nuova strategia nella fase più dura.
La Fiat ha già lasciato trapelare che intende andare incontro a questa scadenza con una diversa articolazione, nella quale, ad esempio, l’alleanza tra il comparto automobilistico del gruppo e la Chrysler, potrebbe essere rafforzata. Ma come accade spesso in Italia, alle prime indiscrezioni, peraltro imprecise, su ciò che ancora dev’essere annunciato, hanno cominciato a diffondersi una serie di interpretazioni sull’eventualità che tutto questo preludesse a un disimpegno della famiglia Agnelli-Elkann dall’industria dell’auto. L’arrivo di John Elkann alla presidenza della Fiat è una risposta anche a queste voci, e come tale è stata interpretata dalla Borsa.
Questa del disimpegno di Elkann e della Fiat dall’Italia e dal mestiere che la famiglia e il gruppo fanno da più di un secolo, è una storia che meriterebbe un approfondimento. A cominciare, appunto, dalla biografia del nuovo presidente: uno nato a New York, cresciuto tra Parigi e il mondo, e venuto in Italia giovanissimo per restarci.
Se non avesse avuto interesse per il suo Paese e la sua tradizione familiare, John avrebbe potuto scegliere liberamente e diversamente. Non si sarebbe stabilito a Torino, non si sarebbe sposato con una ragazza italiana da cui ha avuto due figli e con cui è rimasto a vivere nella città e nella casa che fu di suo nonno. Se uno sceglie l’Italia e una missione difficile come quella che gli è toccata, lo fa perché vuole impegnarsi, non perché punta al disimpegno. Ma si sa, dalle nostre parti, è difficile sfuggire alle dietrologie. John Elkann da ieri è diventato pienamente il nipote di suo nonno, ricopre esattamente le stesse responsabilità che furono dell’Avvocato e del Fondatore. La sua fortuna è che mentre qui ci s’interroga su come ha fatto, a soli 34 anni, ad arrivare così in alto, il suo lavoro, John, dovrà farlo, avendo come orizzonte l’America guidata da un Presidente quarantenne e quel pezzo di mondo nuovo e giovane che corre, in cui sono in tanti gli interlocutori che hanno la sua stessa età.

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