La busta paga degli immigrati

Dalla Rassegna stampa

Abdul e Giacomo lavorano nella stessa azienda. Svolgono le stesse mansioni, hanno gli stessi orari e forniscono uguali prestazioni. Ma quando arriva la busta paga, Abdul guadagna un quarto in meno di Giacomo. Non è un caso isolato.
Perché, secondo uno studio della Fondazione Leone Moressa di Mestre, un lavoratore dipendente straniero guadagna, in media, il 23,3% in meno di un suo collega italiano. E la retribuzione mensile - al netto di tasse e contributi - si ferma a 961 euro. Dati che influiscono sul 9,7% della forza lavoro nazionale, tanto è il peso degli impiegati immigrati.
L'elaborazione - basata sui dati Istat (rilevazione continua della forza lavoro) del terzo trimestre 2009 -, mette in evidenza che la maglia nera va alla Basilicata, dove uno straniero guadagna il 40,3% in meno di un italiano. Ma è tutto il Mezzogiorno a registrare differenziali retributivi al di sopra del 30 per cento. Un po' meglio al Centro-Nord, grazie al Trentino Alto Adige: in questa regione gli immigrati percepiscono un salario inferiore "soltanto" del 12,7 per cento.
«I differenziali retributivi sono alimentati dal mercato del lavoro degradato e dalle scarse opportunità occupazionali - dice Laura Zanfrini, docente di Sociologia dei processi economici all'Università Cattolica di Milano -. Due elementi presenti soprattutto nel sud del nostro Paese e questo spiega il divario». «La maggior parte degli occupati non italiani sono inquadrati come operai, e già questo comporta uno svantaggio economico - spiega Valeria Benvenuti, curatrice del dossier per conto della Fondazione Moressa -. A questo va poi aggiunto che gli stranieri hanno una bassa qualifica professionale e lavorano in settori poco produttivi» .
Le dipendenti immigrate, in tutto questo, risultano le più penalizzate: "guadagnano quasi un terzo in meno delle loro colleghe italiane. E anche dei loro uomini (in media, 799 euro contro 1.o88). «Le straniere guadagnano poco perché buona parte si occupa dei servizi alla persona, che sono poco retribuiti» continua Benvenuti. «Le immigrate si inseriscono prima nel mondo occupazionale - aggiunge Zanfrini - e riescono ad avere il permesso di soggiorno prima degli uomini. Ma poi il loro percorso lavorativo si blocca». Per questo si arriva a quello che la professoressa chiama un "paradosso": «Alla fine del mese, un immigrato maschio senza istruzione guadagna più di una donna straniera laureata». Un fenomeno che riguarda, in realtà, tutti i dipendenti non italiani. Perché, fa notare la Fondazione Moressa, più uno straniero ha alle spalle un percorso formativo di alto livello (laurea, post laurea), più aumenta il differenziale retributivo. In numeri: un terzo in meno.
«Il nostro mercato occupazionale continua a essere poco meritocratico e il capitale umano degli immigrati non viene valorizzato», chiarisce la Zanfrini. Anche la tipologia contrattuale sembra penalizzare lo straniero: più l'inquadramento è stabile più aumenta il divario con gli italiani. Con un contratto a tempo determinato il differenziale con il lavoratore nazionale è di appena il 5,4 per cento. Ma chi ha un contratto a tempo indeterminato, arriva a prendere, in media, un quarto in meno.
«Il divario è basso nei contratti a tempo determinato perché guadagnano pochissimo anche gli italiani ci tiene a chiarire Zanfrini -. Ma nella tipologia a tempo indeterminato, incide molto la mobilità». Il discorso somiglia a quello fatto per le donne: «È più facile per un immigrato entrare nel mondo del lavoro - continua -. Una volta dentro, però, per questi è molto difficile fare carriera». «La rigidità dei contratti collettivi di lavoro incide molto aggiunge Valeria Benvenuti. Gli stranieri sono stati assunti da meno tempo e hanno meno scatti retributivi, anche a parità di mansioni e di produttività».
L'elaborazione della Fondazione Moressa sembra confermare questo ragionamento: per i lavoratori stranieri più giovani la differenza con i coetanei italiani è di appena lo o,4 per cento. Ma all'aumento dell'età segue l'aumento del divario tra le buste paga. Fino ad arrivare al 35,8% di chi ha tra i 55 e i 64 anni.
E la legge Bossi-Fini, influisce sul differenziale? «Abbastanza - si sbilancia la ricercatrice Benvenuti -. Il rinnovo del permesso di soggiorno è vincolato al contratto di lavoro ed è facile che qualche datore di lavoro sfrutti l'occasione».
Laura Zanfrini non è del tutto d'accordo. «Penso che la legge abbia bisogno soltanto di qualche piccola modifica» dice. Secondo la docente, è più lo scontro tra la norma lavorativa anti-discriminatoria della Ue («la più avanzata al mondo»), e le leggi nazionali («che vincolano il soggiorno legale sul territorio alla condizione lavorativa»), a creare il vuoto retributivo.
 

© 2010 Il Sole 24 Ore. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK