Bugia e democrazia

Dalla Rassegna stampa

La recente, clamorosa vicenda di Wikileaks, il sito che ha spiattellato al mondo intero quintali di segretissimi documenti di stato, sottratti alle casseforti telematiche dove erano - metaforicamente - blindati, ripropone il quesito sul rapporto tra la politica e il precetto, l'obbligo etico di dire la verità. Wikileaks ci rivela la cruda realtà di rispettati politici, o di ambasciatori e diplomatici che sotto la rispettabile feluca sorridono all'alleato, al potente stato concorrente, poi nei dispacci o negli "a parte" ne dicono peste e corna, lo irridono e magari lo insultano. Insomma, la menzogna dilaga nelle faccende politiche, da quelle diplomatiche in giù. Ci dobbiamo così riproporre, per l'ennesima volta, la domanda se e in quale misura l'uomo politico può mentire o modificare usiamo un eufemismo - la verità. Non solo quella pubblica, ma anche la privata: in Germania un potente ministro deve mollare la carica quando si scopre che ha falsificato, in piccola o grande misura, la sua tesi di laurea; sono citate come esemplari le dimissioni di autorevoli politici, specie britannici, che hanno tradito il coniuge o comunque avuto relazioni erotiche di sotterfugio, perfino con escort o, peggio, spie. La condotta del politico, figura pubblica, deve essere specchiata, non presentare zone d'ombra.
Colto a dire bugie o a nascondere qualcosa di sé un politico deve (o dovrebbe) fare un passo indietro se non addirittura abbandonare la carriera. Il che in molti casi è effettivamente successo. Però non sempre. È ovvio, a questo punto, che la luce irriguardosa dei riflettori investa quanto avviene da noi, con la nostra classe politica o almeno con alcuni suoi esponenti di primo o di primissimo piano (ciascuno può agevolmente fare nomi, o un nome). Noi, qui, vogliamo limitarci a prendere in considerazione vicende pubbliche, non quelle private (poco interessanti del resto, in un paese cattolico dove una confessione e un'indulgenza lavano macchie e colpe senza troppa difficoltà). Casualmente, mi è capitato tra le mani l'intervento di un noto filosofo italiano, apparso tempo fa su un importante giornale. Il nostro filosofo sostiene che il politico "è costretto a mentire".

La politica – dice - è di per sé "inganno". Attenzione, però, non siamo dinanzi alla rievocazione della "neolingua" del Grande Fratello, come raccontata da Orwell. No: il "tiranno", così come anche il politico "democratico", "promuove un progetto volto a procurare certi benefici alla comunità, solo se (...) scorge un tornaconto personale"; "vuole il bene comune allo scopo di realizzare il proprio bene". Per ottenere il quale, dunque, dovrà ingannare, mentire.

A me pare che questa sia una troppo restrittiva concezione della politica, e perfino della menzogna politica. Ovviamente i politici, così come i non politici, guardano all'interesse personale, ma questa propensione non è il centro, il cuore del comportamento politico. Invece l'ottimo filosofo va oltre, e avverte che il politico è "costretto" a mentire. Costretto: da chi? da cosa? Non è, la politica, una attività, un'arte, una esperienza, dalle regole ben definite intorno alle quali, e non solo a partire dal Machiavelli, studiosi di ogni genere si sono spesi senza tregua? Secondo il nostro, almeno in parte il politico deve muoversi seguendo regole non da lui fissate e che, dall'esterno, lo costringono: se anche volesse, non potrebbe non agire come di fatto agisce, Se poi non è costretto ad agir male dalla spirale dell'egoismo privato quasi antropologico - o dalla pressione esterna, ecco che un'altra costrizione gli viene da una volontà, da una sollecitazione esterna e indecifrabile, che è quella che si chiama "l'eterogenesi dei fini", o, hegelianamente, l'“astuzia della ragione", la quale muove il mondo e le sue sorti infischiandosene dell'azione dell'uomo; anche del politico.
 
Merda e sangue
Il laico sa bene che la politica è fatta anche di "merda e sangue" (chi l'ha detto?) ma sempre restando nella sfera del politico; quella definita dal Machiavelli. Benedetto Croce irrideva i democraticisti a oltranza, troppo irenisti, "politically correct" ("perfetti tolstojani", li definirebbe Galli della Loggia: cfr. Il Corriere della Sera del 5 marzo), e diceva che la politica è il regno innanzitutto della forza, che la sua essenza non è democratica, anche se una società democratica deve cercare di imbrigliarla e impedire che travalichi. Il laico deve tenere ben fermi questi concetti di base.
Da modesto laico, dunque, sono anch'io portato a pensare che quel che deve interessarmi, anche o soprattutto quando agisco in veste di politico, è il tentare di realizzare il progetto che ho in testa. Certamente, senza farmi arrivare alla orwelliana "neolingua", potrà costarmi una - diciamo così -- forzatura della realtà. Certamente, dovrà essere combattuta, in nome della democrazia,che urge e spinge a dire la verità. Ma sapendo bene che anche il democratico, una volta raggiunto il potere, potrà scegliere di dover mentire. È una dialettica che ha la sua interiore ineluttabile necessità.

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